Due anni dopo il sisma che ha distrutto l’Abruzzo, la zona rossa è ancora chiusa e di lavori non c’è traccia. Il premier disse: “Faremo in fretta, non siete soli”
Le macerie sono ancora tutte qui dentro, in quello che resta delle case. Mura squarciate. Tetti volati via assieme alla vita. Il centro storico. Il cuore de L’Aquila si è fermato alle 3,32 del 6 aprile 2009 quando una scossa di magnitudo 6.2 della scala Richter ha sepolto 309 persone. Da allora non batte più. Quello che si ode camminando è solo silenzio. Il silenzio della morte. Un solo rumore richiama l’attenzione: lo scorrere dell’acqua. Ci guardiamo intorno alla ricerca di una fontana rimasta aperta per dare un senso a quel rumore. Lo sguardo si perde nel nulla. Solo più tardi ci spiegano che si tratta di acqua che fuoriesce dalle tubature spaccate dal terremoto e mai aggiustate. Il consumo di acqua è lo stesso di due anni fa quando in città vivevano 14 mila persone oltre agli studenti. Neppure a questo ha pensato la macchina da guerra mediatica dell’emergenza. A meno che non si venga pagati dalle tv di Silvio Berlusconi è impossibile dire: grazie Governo. La zona rossa è ancora chiusa dentro le transenne di ferro presidiata dai militari giorno e notte. “Siamo qui al freddo dell’inverno e al sole cocente dell’estate”, ci dice un ragazzo dentro la sua tuta mimetica che stringe il fucile e si guarda attorno smarrito. Riusciamo ad entrare accompagnati da Vladimiro Placidi, assessore comunale alla ricostruzione dei beni culturali che ci consegna il casco giallo dei Vigili del Fuoco. Lentamente camminiamo dentro una città fantasma. Entriamo nelle case squarciate dove il tempo è fermo a quella notte. A pianterreno di una abitazione, dove la tromba delle scale è un buco nero, scorgiamo un tavolo con sopra incredibilmente intatti i piatti sporchi della cena coperti di vermi. L’odore acre dell’umidità entra nelle narici. La polvere fa lacrimare.
Sarà perché la Santa Pasqua sta per arrivare ma quella che percorriamo ci appare una Via Crucis dove ogni stazione è un ricordo amaro. Rughe profonde come voragini solcano le facciate di Palazzo Picalfieri, di Palazzo Dragonetti vere perle barocche. Rughe di dolore che deturpano il loro splendore e che mai smetterà di raccontare un’enorme tragedia ma anche una delle più grandi truffe mediatiche mai allestite. Basti ricordare i Grandi del Mondo, dirottati qui dalla Maddalena per dimostrare che lui, il premier del fare, avrebbe restituito casa pane e lavoro a questa gente. Bruno Vespa commosso con in mano l’orsacchiotto di peluche ha smesso di fare dirette. Il dolore, quello fresco, si sa, regala picchi di ascolto come il racconto delle promesse. Poi di fronte alle promesse tradite cala il silenzio. L’inganno e la beffa nuocciono ai sondaggi, minano il consenso. Potrebbe suonare blasfemo, ma due anni fa quando arrivammo qui a contare i morti e a raccontare la disperazione dei sopravvissuti si coglieva, pur se fioca, una luce di speranza. Poi la speranza è stata ingoiata dalla rassegnazione. Dalla certezza che semmai qualcosa rinascerà, che semmai qualcuno tornerà nelle proprie case, non accadrà prima di dieci anni, quando il tempo avrà consumato ogni respiro. Dalla convinzione che le 1500 attività commerciali non riapriranno mai. Che gli studenti – quando il 31 dicembre 2011 terminerà lo stato di emergenza e calamità naturale e dovranno ricominciare a pagare le tasse – non si iscriveranno più alle università aquilane: affitti triplicati e in luoghi non serviti dai mezzi pubblici. E neppure i turisti verranno più perché non c’è più nulla da ammirare. Alla fine della salita c’è quello che resta dell’asilo dell’Annunziata. Il pensiero che se la scossa fosse arrivata di mattino queste macerie avrebbero seppellito oltre cento bambini fa rabbrividire. Tutti sapevano che l’edificio non era in sicurezza, così come la Casa dello Studente. Quattordici palazzi costruiti negli anni Sessanta, squagliati come un gelato dentro al suo cono, dentro un boato disumano che non smetterà mai di risuonare nelle orecchie dei sopravvissuti. Arriviamo a Piazza Duomo. È come attraversare un deserto. Cani randagi sdraiati così immobili da sembrare morti. Saracinesche abbassate. Appena voltato l’angolo su Corso Federico II leggiamo da un grande foglio appeso alle transenne: “State cancellando tutti i nostri sogni, c’è bisogno di spazi, di lavoro, di vita”. Prima del terremoto il centro storico era un pullulare di pub, bar, ristoranti, tavolini all’aperto dove i giovani e i turisti trascorrevano le serate. Ora la movida si chiama via della Croce Rossa. Una strada a scorrimento veloce, con una discarica a cielo aperto, in cui giace il pericolosissimo amianto sgretolato che qualcuno ha definito la favela aquilana. Ci sono voluti infiniti reclami affinché l’area venisse non bonificata, ma solo delimitata da fasce arancione fosforescente con su scritto: “Lavori in corso”. Qui nel degrado sono nati come funghi ristoranti e bar dove ascoltare musica. I proprietari dei locali che hanno speso soldi con tanto di autorizzazione del Comune si ribellano e chiedono di migliorare la vivibilità della zona, che è e resta uno stradone in cui le auto sfrecciano, dove l’illuminazione è assente e i marciapiedi divelti, in cui c’è un solo cassonetto per l’immondizia.
“Saremmo ritornati subito in centro, ma ci è stato detto che sarebbero serviti anni. Girava voce che avremmo avuto un’area dove ricollocare tutti i locali, ma dopo tre mesi di silenzio ci siamo sistemati qui”: è solo una delle tante voci disperate. Sono 2.400 gli operai in cassa integrazione. Ottocento le partite iva non riaperte. Quasi 14 mila persone vivono nel Progetto Case, 19 insediamenti lontano dalla città senza mezzi pubblici per raggiungerla. Mentre chi è benestante costruisce liberamente dove vuole in zone a destinazione agricola tra i boschi incontaminati in barba ad un piano regolatore che è saltato con il terremoto. Il Governo ha stanziato 4 miliardi di euro. Niente, perché solo per ristrutturare il centro storico ce ne vorrebbero 6 di miliardi, ad esclusione dei monumenti e delle Chiese. Per i beni culturali il Ministero non ha stanziato un solo fondo.
L’approvazione dei progetti di ristrutturazione è un vero circuito a ostacoli senza fine. Quando sembra che tutto sia andato a buon fine basta un cavillo per vedersi bocciare il progetto e ricominciare daccapo. Per non parlare poi delle responsabilità: non esistono. O meglio non esistono i responsabili. È un continuo rimbalzo dal governatore dell’Abruzzo Gianni Chiodi (che è anche commissario straordinario per la ricostruzione), al vicecommissario Cicchetti al sindaco Massimo Cialente (che dopo aver rassegnato le dimissioni più volte le ha sempre ritirate). Nel solo bar aperto alla fine di Corso Federico II due signore sorseggiano il caffé. Siete aquilane? Chiediamo. “Purtroppo sì”, rispondono e aggiungono: “Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avremmo risposto così della città dove siamo nate, dove abbiamo cresciuto i nostri figli, la città di cui eravamo orgogliose? Ci hanno tolto tutto, anche la forza di ribellarci. Bambocci siamo come bambocci”. Ma di chi è la responsabilità? “L’Aquila è lo specchio del Paese: i politici o sono banditi o sono incapaci e non si sa chi fa più danni”. Allungando lo sguardo ai piedi della montagna si scorge uno dei diciannove insediamenti del Progetto Case. Abitazioni antisismiche consegnate chiavi in mano con tanto di pentole posate e perfino la bottiglia di spumante in frigo, dove se poco poco si supera di qualche chilo il peso forma, è impossibile entrare nel bagno dove sono state allestite vasche con idromassaggio, forse avanzi di magazzino, così grandi da impedire di raggiungere i servizi igienici. I tanto sbandierati e costosi prati all’inglese, impreziositi dalle palme, sono completamente secchi. Quando piove l’umidità è insopportabile e camminando la casa si muove come fosse una zattera in mare aperto. Inconvenienti sopportabili, se come avevano promesso sarebbero stati alloggi figli di quell’emergenza che a conti fatti ha solo permesso di agire in deroga al codice degli appalti, alle norme sul procedimento amministrativo, alle leggi sulla trasparenza della pubblica amministrazione, senza produrre soluzioni concrete per i cittadini. Con lo spettro che quei luoghi-dormitori, in cui non c’è segno di socialità, di aggregazione, di condivisione, siano per sempre. I comitati dei familiari delle vittime, il “popolo viola”, quello delle carriole, chiedono a gran voce che a ricordare il 6 aprile venga invitato solo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Mentre Berlusconi ha già fatto sapere che ci sarà, a rinverdire il parolaio miracolo aquilano e magari ad annunciare che comprerà una casa anche qui tra le macerie, come a Lampedusa.
da Il Fatto Quotidiano del 3 aprile 2011