Daniele Rustioni a 28 anni dirige l’Aida alla Royal Opera House. E’ stato assistente di Pappano, e l’11 aprile debutterà a Cardiff con “Così fan tutte”. “Qui a Londra sono tutti sconcertati per quel che accade alla cultura in Italia. Non siamo più competitivi su nulla. Quando ho avuto l’opportunità di scappare, ho tirato un sospiro di sollievo”. L’ingresso della Royal Opera House è sovrastato da una splendida immagine del ballerino Rupert Pennefather che vola sulla Senna – con Notre Dame sullo sfondo – in vista di una rappresentazione della Manon di Massenet coreografata da Kenneth MacMillan. Ma ieri sera al Covent Garden si parlava italiana. A dirigere l’Aida di Verdi c’era Daniele Rustioni, subentrato a Fabio Luisi. Il giovane direttore milanese (28 anni appena compiuti), è salito sul podio del prestigioso teatro londinese dove è già stato assistente di Antonio Pappano in tutte le repliche di Anne Nicole, l’opera che il compositore Mark-Anthony Thurnage ha tratto dalla tragica vicenda dell’ex coniglietta texana Anna Nicole Smith.
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“Sto lavorando a tre cose contemporaneamente”, esordisce Rustioni mentre si accomoda al tavolo del ristorante dietro l’angolo, “il preferito di Tony (Pappano)”. Cucina italiana naturalmente. La paura per l’Aida già fugata dagli applausi. “L’altro giorno ho provato a Lugano la Sesta di Beethoven, l’unica che non avevo ancora affrontato. Sto anche studiando Così fan tutte con la quale debutterò a Cardiff l’11 aprile. La giornata è lunga, basta organizzarsi. A me bastano sei ore di sonno. E’ una disciplina che ho appreso nei 15 anni di conservatorio, al Verdi di Milano”.
Era un numero uno in
qualsiasi disciplina negli anni del conservatorio, poi quando stava diventando il nostro direttore più promettente è volato alla Royal Opera House. Un altro cervello in fuga dall’Italia che taglia fondi alla cultura. “A esser sincero io ero proprio un secchione, ho fatto anche due anni di università alla Bocconi, Economia delle istituzioni internazionali e amministrazioni pubbliche”, racconta Rustioni, un bel ragazzo che fuori dal podio, senza la gestualità che gli conferisce quel carisma speciale, potrebbe essere un dinamico stockbroker di Wall Street o un rampante direttore d’azienda. “Mio padre in effetti è un manager, ma io non mi ci vedevo proprio come businessman, anche se i due anni alla Bocconi sono stati utili. I musicisti hanno sempre la testa tra le nuvole, perdono facilmente il contatto con la realtà. Oggi con la politica dei tagli che purtroppo affligge l’Italia avere una mentalità più manageriale aiuterebbe a fronteggiare la crisi”.
Tra le mura della Royal Opera House si muove da padrone. Lo salutano, gli sorridono, lo incoraggiano. Ma la domanda che teme arriva quasi ogni giorno, inevitabile: “Che sta succedendo in Italia?”. “Qui sono tutti sconcertati”, dice. “Noi l’opera l’abbiamo inventata, eppure non sappiamo valorizzare le nostre risorse”. Alla musica ha dedicato la sua infanzia, l’adolescenza e questa giovinezza fatta di precoci trionfi (La cavalleria rusticana nell’allestimento della Cavani a San Pietroburgo, Il barbiere di Siviglia alla Fenice, L’elisir d’amore al Comunale di Bologna, L’occasione fa il ladro alla Scala, dove tornerà nel 2012 per dirigere La Bohème). “Ho dovuto rinunciare a molto. Soprattutto nel periodo delle medie. I compagni di scuola mi vedevano come un alieno, sempre impegnato, ogni giorno alle prese con lo strumento. Mi sentivo escluso da alcuni gruppi. Ma nessun rimpianto; a me la discoteca non è mai piaciuta. L’inquinamento acustico di certi locali è insopportabile”.
Suo padre, che è nato in Argentina, suonava la chitarra in un gruppo di musica leggera, a Buenos Aires. Ma in casa ascoltava Il barbiere di Siviglia e Le nozze di Figaro. Sua madre invece canta ancora nel Coro sinfonico Giuseppe Verdi; fu lei a fargli fare la prima esperienza. “Avevo cinque anni quando mi portò a cantare. Poi ho cominciato a studiare… di tutto. Violoncello, violino, pianoforte, organo, tromba, corno, composizione, direzione di coro, strumentazione per banda, direzione d’orchestra. Ma l’esperienza più importante, da bambino, fu il Coro delle voci bianche alla Scala, quando Muti mi fece fare uno dei tre genietti nel Flauto Magico. Mentre gli altri andavano pazzi Take That, Spice Girls e Britney Spears io idolatravo Brahms. La musica leggera, anche per mia ignoranza, non mi ha mai attratto. Non mi interessa né mi arricchisce. Non mi appassiona. Solo i Beatles mi piacciono tantissimo, li suonavo anche col papà, lui alla chitarra e io al pianoforte”.
Di una cose si accorse altrettanto precocemente, che in Italia per un giovane direttore, pur se di talento, non c’è spazio. “Che dovrei dire? Che ho tirato un respiro di sollievo quando ho avuto l’opportunità di scappare?”, sbotta. “Non voglio far troppe polemiche, ma se oggi ho l’opportunità di dirigere in Italia è solo perché arrivo dall’estero. Qui c’è una meritocrazia che da noi non esiste, e un apparato che permette di arrivare al top della carriera. Quando sono arrivato a Londra non avevo una lira, studiavo e basta, mi davo da fare accompagnando cantanti, facevo letteralmente lo schiavo in teatro per imparare. Ma è anche vero che il primo lavoro mi ha immediatamente garantito l’indipendenza economica”.
L’entusiasmo gli si legge negli occhi, nel tremolio delle ginocchia sotto il tavolo, nel fremito delle mani che non riesce a tener ferme mentre descrive le dinamiche di un allestimento complesso come Aida, l’amore per Puccini e la Bohème, l’opera che ha diretto più di frequente, del precoce amore per Brahms e Mahler. “Dirigere è una droga”, sospira, “se si smette si va subito in crisi d’astinenza. Per me dieci giorni di pausa tra una produzione e l’altra sono già un delirio”. E’ chiaro che da un direttore giovane e prestante come Rustioni gli inglesi si aspettino la verve travolgente di cui ieri sera ha dato sfoggio. “Secondo me il gesto deve essere la conseguenza naturale della musica che si dirige, non deve diventare uno show personale”, precisa il maestro. “Il massimo – ma è una delle cose più difficili – è quando fisicità e talento coincidono. Non vorrei assecondare il cliché che vuole il direttore italiano più irruente. L’approccio deve essere proporzionale alle partiture. A volte cerco di frenarmi, perché sul podio quel che conta è la frase musicale, aver assimilato il brano, solo così riesci a dargli il respiro che vuoi”.
Dell’Italia, dice, gli manca tutto. Lo stile di vita, il cibo, il clima. Ma soprattutto il fatto di poter dirigere stabilmente in patria. “Sarebbe fantastico. Rinuncerei anche alle garanzie che mi dà il Covent Garden. Però vedo – e questo mi terrorizza – che la fiamma della musica classica in Italia si sta lentamente spegnendo. A teatro, da noi, vedi solo teste grigie e bianche. Mi chiedono: “Come faceva ad amare Mahler a undici anni?”. Perché no? Odio chi dice: “Ascolto musica classica perché mi rilassa”. Vuol dire che non ha capito niente”.
Si offre di accompagnarci in un breve tour attraverso la Royal Opera House. Una struttura magnifica con auditori, spazi ricreativi, cucine, ristoranti. Da una sala prove si ode la voce di un basso che prova il Requiem di Mozart. Dalle terrazze si gode un magnifico panorama della città. Il foyer, visto dall’alto è spettacolare. L’immenso teatro ormai deserto è più mistico di una cattedrale. Rustioni non tornerà tanto presto in Italia.
La Repubblica 31.03.11