Il piano dell’ad del Lingotto per comprarsi Chrysler e trasferire la sede in Usa. Nel mezzo del nuovo ciclone mediatico sul futuro americano della Fiat, la cosa più ovvia l’ha detta Giovanni Centrella, ora segretario generale dell’Ugl ma prima leader dei metalmeccanici del sindacato di destra: «È scontato che, dopo la fusione con Chrysler, Fiat possa decidere di aprire una sede negli Usa».
Scontato è la parola giusta, visto che si sa fin dallo scorso 15 febbraio, data dell’audizione parlamentare dell’amministratore delegato Sergio Marchionne, che la casa automobilistica torinese presto sposterà la sua testa a Detroit. In quell’occasione il manager-dominus del Lingotto fu abbastanza chiaro, fissando dei criteri di scelta fra Italia e Stati Uniti che non lasciavano dubbi. Il primo è la capacità di accedere a grandi capitali. Va da sé che non c’è storia fra Wall Street e piazza Affari, fosse solo per la possibilità di attirare i grandi fondi d’investimento americani, partner ideali per condividere un investimento a medio termine come quello nel settore auto. Il secondo criterio è l’attrattività del sistema economico: anche in questo caso la sfida è impari, visto che l’Italia è famosa per la sua capacità di complicare la vita alle imprese mentre negli Usa ormai governo e sindacati fanno di tutto per attirare capitali stranieri. Insomma, due a zero per gli americani.
Ha quindi solamente il sapore di una ulteriore conferma lo scoop della Reuters, che ieri mattina ha messo in subbuglio le redazioni dei giornali. L’agenzia di stampa ha pubblicato di buon mattino una lunga analisi in cui cita fonti anonime vicine a Marchionne, tutte convinte della volontà del manager italo-canadese di trasferire la sede principale oltreoceano, sebbene ancora non se ne sia parlato in consiglio d’amministrazione. A Torino invece rimarrebbe la guida delle attività europee del gruppo. A far pendere la bilancia verso gli States anche un altro fattore, a giudizio della Reuters: le tasse. «Il luogo dove una società decide di stabilire la sede legale è anche il luogo dove paga le tasse – confida un anonimo dirigente Fiat –. Se in Italia si paga il 70 per cento e solamente il 30 in America, non ci vuole una cima per capire dove conviene di più».Sebben non nuova, la notizia ha subito alimentato le polemiche politiche e sindacali. La Fiom è ripartita all’attacco, con Giorgio Cremaschi, il presidente del comitato centrale, che invoca la nazionalizzazione della Fiat, mentre la Cgil si mostra più cauta, chiedendo conto dei dettagli del piano industriale per bocca del segretario confederale Vincenzo Scudiere. L’opposizione invece tira in ballo la negligenza del governo: il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, ha chiesto all’esecutivo di «mettere in campo interventi di sostegno alla permanenza in Italia, oltre che della produzione, anche delle funzioni di ricerca e progettazione».
La politicizzazione della vicenda tuttavia ha portato in secondo piano la vera novità contenuta nello special report dell’agenzia inglese. E cioè che Marchionne starebbe seriamente pensando di sacrificare un pezzo del gioiellino Ferrari per poter arrivare al 51 per cento di Chrysler. Il gruppo italiano infatti dovrebbe arrivare gratis al 35 per cento del capitale della società americana (dal 25 attuale) raggiungendo degli obiettivi di produzione già stabiliti col governo americano, mentre per il restante 16 per cento dovrebbe ripagare il prestito fatto dal Tesoro americano e quello canadese, fra i 7 e gli 8 miliardi dollari.
Una cifra molto vicina al valore stimato del cavallino in caso di quotazione in borsa. E Marchionne, sostiene la Reuters, lo sa bene.
da Europa Quotidiano 26.03.11