Esiste presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu una notifica che intende risparmiare ai libici il destino toccato, fra gli altri, ai cittadini di Panama, della Nigeria o di Haiti. Una costante tiene insieme questi popoli così diversi: al termine di paurose dittature, hanno perso il filo di certi conti bancari in precedenza controllati dal regime. In quei casi erano fondi depredati da tiranni come Sani Abacha, Manuel Noriega o François Duvalier. Stavolta in gioco c’è il patrimonio della Banca di Libia: oltre cento miliardi di dollari da tutelare perché restino ai libici se e quando Muammar Gheddafi non sarà più il leader di quel che resta della Jamahiria. La lista è depositata al Palazzo di Vetro da prima che il Consiglio di sicurezza desse il via ai bombardamenti. Da tempo era chiaro che i dettagli in quel pezzo di carta un giorno potrebbero tornare utili: in futuro nessuno in Libia o fuori potrà dire che le cose stavano diversamente, che quei soldi non sono libici, o non sono mai esistiti. Si tratta di una precauzione non da poco. Non lo è, perché ciò che emerge dal documento è il profilo di uno Stato finanziariamente molto più robusto di quanto gli analisti immaginassero fino a qui. Che la Libyan Investment Authority (Lia) gestisse circa 60 miliardi di dollari in investimenti esteri era in effetti ormai chiaro. Ciò che non si sapeva, è che quella somma non costituisce neppure la metà delle riserve ufficiali di Tripoli. Molto più di quanto detiene la Lia resta nei conti che la Banca di Libia, l’istituto centrale del Paese, ha distribuito presso decine di importanti banche private occidentali. Il patrimonio della Banca di Libia ammonta in totale a 102,9 miliardi di dollari. Di questi 2,4 sono depositati presso il Fondo monetario internazionale a copertura quota libica nell’organismo di Washington. Altri 17 miliardi di dollari sono poi denaro in teoria del fondo sovrano, la Lia, ma depositato presso conti a nome della banca centrale. Il resto del patrimonio, circa 85 miliardi di dollari, appartiene poi tutto direttamente all’istituto centrale. Da un paio di settimane queste somme in realtà sono congelate per legge sia in Europa che negli Stati Uniti, benché in teoria ancora in febbraio su certi conti potrebbero esserci stati movimenti. Ma si tratta comunque di un patrimonio determinante nella battaglia per la Libia: su quella ricchezza un futuro governo che dovesse emergere dopo Gheddafi potrà fondare la rinascita del Paese, magari grazie a un grosso programma di welfare e nuove infrastrutture (che molte imprese occidentali faranno la fila per costruire). Secondo osservatori del sistema finanziario la Banca di Libia negli anni sembra aver gestito con accortezza le proprie riserve, senza concentrare il rischio in alcun Paese. Così in Italia risultano depositati in totale 9,86 miliardi di dollari, di cui 4,7 miliardi in titoli e investimenti di portafoglio, con il resto concentrato in strumenti monetari (ossia, in denaro liquido). Gli istituti presso i quali la Banca di Libia avrebbe aperto delle posizioni sono principalmente Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre alla Banca d’Italia. A queste somme vanno aggiunte poi le partecipazioni libiche in Unicredit, Finmeccanica o Eni, anch’esse congelate da un paio di settimane. Benché l’Italia sia il principale partner commerciale della Libia, sul piano finanziario Tripoli ha puntato ancora di più sulla City di Londra. In Gran Bretagna risultano concentrati 14,4 miliardi di dollari della banca centrale, anche qui distribuiti in tutti i principali istituti: i conti sono aperti presso Hsbc, Barclays, Lloyd e anche presso la Bank of England. Anche in Francia l’esposizione è sostanziale e superiore a quella accumulata in Italia. E anche in questo caso emerge un’attenta distribuzione delle riserve fra le varie grandi banche del Paese: fra queste la Banque de France, Bnp Paribas, Société Générale e Crédit Agricole. Non risultano invece posizioni in Svizzera, probabilmente perché smobilizzate dopo che Hannibal Gheddafi, figlio del Raìs, venne arrestato nel 2008 in un hotel di Ginevra per aver malmenato la moglie. La banca centrale di Tripoli non ha invece avuto dubbi nell’aprire un conto in banca negli Stati Uniti: si trova presso la Bank of New York Mellon, istituto specializzato in attività di deposito per investitori di tutto il mondo. Resta poi la parte oggi forse più rilevante del patrimonio della banca centrale, quella in oro. Le riserve in lingotti arrivano almeno a 143 tonnellate, pari a circa 6,5 miliardi di dollari ai valori attuali, e sono fondamentali in questa guerra perché restano la sola porzione del tesoro oggi davvero nelle mani di Gheddafi. Quell’oro non è stipato nelle banche svizzere o in quelle inglesi: è nei caveau sotto i palazzi di Tripoli. Il colonnello può ancora farlo vendere in Chad o in Niger per finanziare la guerra e stipendiare i mercenari. Ma agli uomini di finanza che lo hanno incontrato, Gheddafi non è mai parso così interessato al denaro: solo quanto basta per bombardare i propri cittadini pur di non cedere loro un solo dollaro.
Il Corriere della Sera 24.03.11