attualità, politica italiana

"Un premier sotto ricatto", di Massimo Giannini

Un presidente del Consiglio sotto ricatto. Un governo a responsabilità e a sovranità limitata. Da qualunque parte la si osservi, l´Italia offre di sé un´immagine da fine Impero. Sul palcoscenico vediamo la tragedia della guerra e i grandi orrori della dittatura gheddafiana. Nel retropalco, al riparo dagli sguardi di un´opinione pubblica confusa e disinformata, non vediamo la commedia della destra e i piccoli orrori della «democratura» berlusconiana. La «promozione» di Saverio Romano a ministro è l´ultimo insulto al buon senso politico e alla dignità istituzionale. L´emendamento sulla prescrizione breve per gli incensurati è l´ennesimo schiaffo allo Stato di diritto.Ciò che è accaduto ieri al Quirinale è la prova, insieme, della debolezza e della sfrontatezza del presidente del Consiglio. Berlusconi paga a caro prezzo la vergognosa «campagna acquisti» che in questi mesi gli ha consentito prima di evitare il tracollo al voto di sfiducia del 14 dicembre, poi di puntellare la maggioranza dopo la fuoriuscita dei futuristi di Gianfranco Fini. La sparuta pattuglia dei cosiddetti «responsabili», assoldati tra le anime perse dei «disponibili» di Transatlantico, gli ha presentato il conto: i nostri voti alla Camera, in cambio di poltrone di governo e di sottogoverno. Esposto a questo ricatto pubblico subito in Parlamento (che si somma ai ricatti privati patiti sul Rubygate) il premier non si è potuto tirare indietro. A costo di imbarcare, al dicastero dell´Agricoltura, un deputato chiacchierato sul quale pende un´inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa.
Non è la prima volta che Berlusconi mette in squadra ministri discutibili, sul piano politico e giudiziario. Volendo, si potrebbe partire da lui stesso. Se si allarga lo sguardo, tornano in mente il plurindagato Cesare Previti ministro della Giustizia, sul quale pose il veto Scalfaro nel maggio 1994, e poi il plurinquisito Aldo Brancher ministro per l´attuazione del federalismo, sul cui pretestuoso «legittimo impedimento» pose il veto Napolitano nel giugno 2010. Ma stavolta c´è di più e di peggio. Da un lato, appunto, c´è la sottomissione a un truce ricatto, che la dice lunga sulla condizione di «minorità» di questa maggioranza: si è dotata di un fragile argine numerico, ma non dispone più di un solido margine politico.
Dall´altro lato, c´è la sfida alle istituzioni. La scorsa settimana, nel primo incontro al Quirinale sul rimpasto, il presidente della Repubblica aveva già segnalato al Cavaliere che l´eventuale proposta di Romano ministro sarebbe stato un problema serio, viste le pesantissime ipotesi di reato che tuttora pendono sul personaggio in questione, per il quale esiste una richiesta di archiviazione ma sul quale il gip non si è ancora pronunciato. Ancora l´altro ieri sera, Napolitano aveva ripetuto a Gianni Letta che se il premier non avesse desistito dal suo intendimento, il Capo dello Stato avrebbe accettato la sua proposta perché non esistono «impedimenti giuridico-formali» tali da giustificare un diniego, ma non avrebbe rinunciato a rendere pubbliche le sue «perplessità politico-istituzionali» sulla nomina.
Nonostante questi avvertimenti, il presidente del Consiglio è andato fino in fondo. E ha costretto il Colle a un atto clamoroso e irrituale: un comunicato ufficiale in cui si auspica un rapido chiarimento sulla posizione processuale del neo-ministro, in relazione alle «gravi imputazioni» che lo riguardano. Un episodio che non ha precedenti. La presunzione di innocenza è una garanzia costitutiva di ogni Stato liberale. Ma che credibilità può avere un governo in cui, dal presidente del Consiglio in giù, è un contino viavai di indagati, inquisiti, processati? E fino a che punto può spingersi il cinismo politico di un premier, che pur di galleggiare fino alla fine della legislatura, è pronto a sottoscrivere qualunque «patto», anche il più scellerato, solo per salvare se stesso e il suo governo?
In questa logica, perversa e irresponsabile, rientra anche la questione della giustizia. Quanto è accaduto tre giorni fa in commissione, alla Camera, è l´ennesimo scandalo della democrazia. L´emendamento al disegno di legge sul processo breve, presentato dal carneade pidiellino Maurizio Paniz (il patetico Cirami di questa sedicesima legislatura) abbatte i tempi della prescrizione per gli incensurati. Più ancora di quelle che l´hanno preceduta, è una norma tagliata a misura per i bisogni processuali del Cavaliere. Grazie a questo trucco legislativo, il processo Mills decadrà prima dell´estate, e il premier sfuggirà ad una probabile condanna. La vergogna non è tanto la «cosa in sé»: di misure ad personam il Cavaliere se n´è fatte approvare ben 38, in diciassette anni di avventura politica.
Il vero scandalo è nella menzogna eletta a metodo di governo. Solo tre settimane fa, nel quadro della controffensiva politico-mediatica orchestrata da Berlusconi e dalla Struttura Delta, il governo aveva spacciato al Paese la sua «storica riforma della giustizia». Vendendola agli italiani, al capo dello Stato e all´opposizione come una «svolta di sistema», che per la prima volta non avrebbe contenuto norme atte ad incidere «sui processi in corso». Quindi mai più giustizia ad uso personale, mai più leggi ad personam. Un mossa astuta, propagandata e camuffata con tutti i mezzi del network informativo e televisivo di cui il premier può disporre. Una mossa che aveva accecato i soliti «addetti al dialogo» del Pd. Avevamo scritto che quella non era affatto una «riforma storica», ma una «controriforma incostituzionale». Avevamo scritto che prima di andare a vedere cosa c´era nella mano visibile del Cavaliere, bisognava capire cosa c´era in quella nascosta dietro alla sua schiena. Ora lo sappiamo. È l´ultima conferma che in Italia, finché c´è Berlusconi, la legge non sarà mai uguale per tutti. Noi l´abbiamo capito da un pezzo. Ora speriamo che l´abbiano capito anche le anime belle del centrosinistra.

La Repubblica 24.03.11

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“Romano, strappo di Berlusconi il Quirinale: firma con riserve. Promosso all´Agricoltura il deputato indagato per mafia”, di Carmelo Lopapa

Via al mini- rimpasto: Galan passa ai Beni Culturali al posto di Sandro Bondi. Il blitz va a segno in poche ore. Il premier Berlusconi la spunta sulle resistenze del Quirinale, ha un impegno da rispettare. Saverio Romano diventa ministro della Repubblica. All´Agricoltura, al posto di Giancarlo Galan dirottato ai Beni culturali lasciati da Sandro Bondi. Ma l´accelerazione del mini rimpasto crea un incidente diplomatico senza precedenti che rasenta il conflitto istituzionale. E raggela ancora una volta i rapporti tra Palazzo Chigi e il Colle.
La Presidenza, con una nota, prende le distanze da quella nomina, giudicata inopportuna per via dell´inchiesta ancora aperta a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Se ne assume piena responsabilità il premier. Nel colloquio di dieci minuti che Berlusconi, accompagnato da Gianni Letta, ottiene con Napolitano prima del giuramento, il capo del governo illustra la moratoria sul nucleare varata in Consiglio dei ministri. Ma soprattutto insiste sulla nomina di Romano, si dice certo della sua innocenza, garantisce per lui, confida nell´imminente archiviazione. E poi, un ulteriore rinvio avrebbe messo a rischio in una fase così critica la tenuta del governo. Napolitano ne prende atto. Il giuramento può avere inizio. Il leader del Pid si presenta in sala della Pendola con moglie e il figlio Antonio. Lo presenta al presidente: «È al primo anno di giurisprudenza». «Ha già superato il padre in altezza» commenta il capo dello Stato. Sorrisi, firma, brindisi di rito. Ma mentre Berlusconi, Letta e Romano scendono dal Colle, dagli uffici del Quirinale parte la nota che gela il premier. Napolitano non pone un veto – unico precedente Scalfaro nel ‘94 su Previti alla Giustizia – ma conferma di aver assunto informazioni «sul procedimento a carico del ministro per gravi imputazioni». E le «riserve sull´opportunità politico-istituzionale» nascono dal fatto che il gip «non ha accolto la richiesta di archiviazione della Procura». Ma in assenza di «impedimenti giuridico-formali» si procede, in attesa «che gli sviluppi del procedimento chiariscano al più presto l´effettiva posizione» del ministro. Messaggio chiaro: il Colle avrebbe preferito attendere il pronunciamento del gip, per altro atteso per il primo aprile. Ma Berlusconi non avrebbe potuto indugiare un giorno di più. Già ieri mattina i Responsabili lo hanno fatto penare, Belcastro e Cesario si sono presentati in giunta per le Autorizzazioni con due ore di ritardo, solo a ridosso del voto sul conflitto di attribuzioni sul caso Ruby, in concomitanza con la notizia della nomina di Romano. Il gruppo dei 29 è rimasto in fibrillazione tutto il giorno. Rasserenato in parte dal Cavaliere nel corso della cena di festeggiamento per il nuovo ministro: altro incontro fissato per martedì per mettere a punto i nuovi incarichi di governo.
Berlusconi apprende con stupore della nota quirinalizia. Ancora peggio Romano. Si dice «amareggiato», convinto che «non corrisponde al reale pensiero del capo dello Stato». Per di più «inesatta: perché non sono imputato, ma solo indagato». Il Colle ribatte ancora piccato, negando di aver attribuito quella qualifica. Alle 22 un terzo intervento per precisare che quelle riserve sul leader Pid erano state espresse «nei modi e nei tempi istituzionali dovuti», per cui il governo ne era a conoscenza. È un nuovo muro contro muro. Di Pietro condivide i rilievi di Napolitano ma lo attacca: «Ci saremmo aspettati che non controfirmasse la nomina». Per il Pd, Berlusconi «ha dovuto sottostare a un vero e proprio ricatto». Dal finiano Granata l´affonda più pesante: «Quando Maroni porterà in Consiglio dei ministri la proposta di scioglimento per mafia del Comune di Belmonte Mezzagno (paese di origine di Romano, ndr) cosa farà il neo ministro indagato per mafia, difenderà il sindaco che è suo zio?». Interpellato a Varese sulle perplessità del Quirinale, il ministro dell´Interno taglia corto: «Non ho niente da dire».

La Repubblica 24.03.11

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Sì alla nomina, poi la stoccata gelo tra Napolitano e premier sui “guai” del neo ministro, di Francesco Bei e Umberto Rosso

Il Cavaliere: senza questa scelta governo in crisi. Berlusconi aveva garantito: tutti casi chiusi. E sapeva che il Colle avrebbe “esternato”. Una settimana fa il capo dello Stato aveva manifestato le sue perplessità su Romano. «Presidente, mi assumo io la responsabilità politica della proposta: questa nomina è necessaria per l´equilibrio e la stabilità del governo». Silvio Berlusconi ha deciso di forzare la mano a Napolitano. Così, in un teso colloquio alla presenza di Gianni Letta, mentre fuori dalla porta aspetta trepidante Saverio Romano accompagnato dalla moglie e dal figlio dicianovenne, si consuma l´ultimo strappo tra palazzo Chigi e il Quirinale.
Perché Napolitano non si dà affatto per vinto, anzi ci tiene a ribadire che le sue «perplessità politico-istituzionali» restano intatte, esattamente come erano state già comunicate nei giorni scorsi a Palazzo Chigi. È infatti da tempo, almeno dalla visita del premier al Colle di una settimana, che va avanti questo braccio di ferro sotterraneo sul nome del ministro dell´Agricoltura. Una nomina che Napolitano ritiene quantomeno inopportuna finché non si sarà definitivamente chiarita la posizione del politico siciliano davanti al Gip.
Ma per Berlusconi il tempo stringe. I Responsabili, dilaniati al loro interno su chi deve andare al governo e chi resterà a bocca asciutta, su una cosa sono invece tutti d´accordo: il premier deve accettarli al tavolo, altrimenti lo faranno saltare. A cominciare dalla giustizia, il terreno scelto per le azioni di guerriglia. Il Cavaliere sa di avere il coltello alla gola: a Montecitorio ieri si votava in giunta sul conflitto d´attribuzione e tra poco dovrà pronunciarsi l´Aula. I Responsabili, come si è visto, sono determinanti. Così come sull´emendamento Paniz sulla prescrizione breve, che salverà Berlusconi da una condanna al processo Mills. Non c´è più tempo per esitazioni e per dare ascolto ai richiami del Colle alla «prudenza». Il Cavaliere vede a rischio la stessa tenuta della maggioranza e, con questa minaccia, si presenta al Quirinale: «Senza la nomina di Romano non posso escludere una crisi di governo».
È una forzatura evidente, perché non è il Colle a dover risolvere i problemi della maggioranza. «I decreti di nomina dei ministri – si fa notare al Quirinale – si firmano valutandone tutti i requisiti». Quello di Berlusconi è un diktat per mettere Napolitano con le spalle al muro: ingoiare il rospo Romano per evitare le elezioni. Il capo dello Stato non può che prendere atto della decisione del Cavaliere di andare avanti comunque ma, poco prima di entrare nella sala della Pendola per il giuramento del neo-ministro, annuncia al premier e a Letta l´intenzione di rendere pubbliche le sue riserve. È l´ultima carta che gli resta in mano.
Come promesso, l´inchiostro del decreto di nomina non si è ancora asciugato che già le agenzie di stampa battono i flash sul comunicato del Quirinale. Lasciando solo al premier il peso di una scelta ritenuta azzardata. Perché spingersi fino a rifiutare la nomina, come pretendevano i dipietristi (e anche molti del Pd e di Fli, pur senza dirlo apertamente), non è stato ritenuto possibile. Già la scelta di formalizzare le proprie obiezioni in una nota pubblica è stata una decisione sofferta, ma dal Colle si fa presente che non sussistevano le ragioni giuridiche e formali per arrivare ad una aperta rottura istituzionale con il governo.
Dal Quirinale erano comunque partiti diversi segnali di grande preoccupazione indirizzati a Palazzo Chigi sui procedimenti aperti. Tanto da spingere Saverio Romano al contropiede: lunedì ha fatto arrivare a Gianni Letta tutto il fascicolo giudiziario che lo riguarda. Un faldone che deve aver soddisfatto il sottosegretario, che infatti ha provveduto a inviarlo a Donato Marra, il segretario generale del Quirinale, accompagnandolo da una nota autografa. Come a dire: per noi è pulito. Anche Berlusconi, pressato da Alfano e Schifani, due grandi sponsor del neo ministro, garantiva che «tutti i casi sono chiusi. Su Romano non c´è nulla». Il clima rilassato della cerimonia del giuramento deve poi aver convinto i presenti che l´annuncio di Napolitano – renderò pubbliche le mie perplessità – forse non andava preso alla lettera. Il capo dello Stato tratta amabilmente il neoministro e la moglie, indica il figlio e si lascia andare a una battuta: «Che giovanotto, è più alto di lei!». Cortesie umane, scambiate da Berlusconi e Romano per un´accettazione della nomina. E invece no, dopo poco arriva la doccia fredda.
Ora, dopo il blitz e la rampogna del Quirinale, Berlusconi mastica amaro. «Siamo diventati una repubblica presidenziale – si lamenta il premier con i fedelissimi – ormai Napolitano ci mette sotto tutela». Eppure non una parola viene pronunciata contro Napolitano, né dal Cavaliere né dai suoi, nonostante l´ira consumata in privato. «Non possiamo andare allo scontro totale con il Quirinale – spiega il premier – altrimenti offriamo il pretesto a Fini e Casini per buttarsi nelle braccia del Pd e lanciare la Santa Alleanza contro il sottoscritto».

La Repubblica 24.03.11