Quante volte Ignazio La Russa avrà sognato, nella sua giovinezza sanbabilina, una notte tricolore nella quale arringare la folla dall’Altare della Patria, in piazza Venezia, in diretta tv? Amara le nemesi, per lui e per Alemanno: dover lasciare quella piazza gremita sotto i fischi, contestati da quegli stessi italiani patriottici che di solito, affollando i vicini Fori Imperiali per la sfilata del 2 giugno, rimangono freddi per i politici di sinistra e incoraggiano quelli di destra.
È incastonata di episodi così, tutti dello stesso segno, questa festa del 17 marzo, celebrazione nella quale non tutti credevano (alcuni, sventurati, talmente poco da chiederne l’annullamento) e che invece ieri ha magicamente assunto un significato autentico, nazionale, nell’incontro – intorno ai luoghi simbolo del Risorgimento – fra quattro soggetti: il capo dello stato, il popolo, le amministrazioni locali, la scuola pubblica.
Sì, anche la scuola pubblica, per una volta nel suo vero ruolo di motivatrice ed educatrice. Di che cosa è cosparso questo quadro di ritrovata unità nazionale, oltre che della partecipazione popolare e della solenne riflessione del capo dello stato, vera summa del suo settennato? Delle eccezioni che, diciamo la verità, hanno dato ulteriore senso a una celebrazione che poteva rischiare la retorica.
Eccezioni nei confronti delle quali è suonata una ripulsa maggioritaria: gli stupidi commenti di noti capi leghisti; l’assenza dall’aula di Montecitorio dei parlamentari del Carroccio; la diserzione di sindaci e governatori verdi dalle feste cittadine; il tavolino provocatoriamente allestito dallo sciocco Salvini in piazza Duomo a Milano, travolto dal disprezzo della folla e infine rimosso dalla polizia.
E poi l’eccezione più clamorosa: un livido presidente del consiglio inseguito per tutta Roma da fischi e urla di disapprovazione. Sempre spiazzato, sempre laterale, sempre in ritardo, costretto a lasciare dal retro la basilica della messa ufficiale, infine circondato alla camera da ministri leghisti di cui è ostaggio, e che ostentatamente non si univano al coro dell’Inno di Mameli.
Berlusconi una volta di più, in un’occasione di celebrazione nazionale, è apparso un estraneo alla festa. Invitato e presente solo per etichetta, con la testa evidentemente affollata di pensieri cupi, negativi, vendicativi. Il portatore, neanche tanto sano, del virus leghista della divisione del paese. Un ex leader della Nazione, oggi stretto fra gli accorgimenti legali che smentiscono la sbandierata disponibilità a rispondere in tribunale delle accuse contro di lui, e l’impossibile bricolage di un rimpasto che apre più buchi di quanti ne rappezzi.
È capitato molte altre volte, ma mai in maniera così clamorosa. Ed è sempre un caso di rovesciamento della medaglia, come per il Berlusconi amato dalle donne, che per i propri eccessi si mette contro la maggioranza di esse.
Così, la conclamata estraneità di Berlusconi rispetto ai riti della Repubblica, alla sua storia, alle sue liturgie, tanto spesso esaltata da Giuliano Ferrara come virtù massima del Cavaliere, si capovolge nel suo contrario.
Diventa incapacità di mettersi in sintonia con un sentimento e una aspettativa che col Palazzo hanno poco a che fare, e sono invece schiettamente popolari, trasversali, adagiano sul più soffice senso comune dell’italiano che si compiace del tricolore, rispolvera i miti scolastici, è felice di riscoprirli nelle parole di Napolitano, nella mimica di Benigni.
C’è dunque un dato caratteriale, inestirpabile, che in queste ricorrenze stacca Berlusconi dalla sua pretesa popolarità. Adesso però c’è anche qualcos’altro, qualcosa che ieri aleggiava nell’aria da piazza Venezia al Gianicolo, dall’Esedra a Montecitorio. Ma anche a Torino, a Milano, perfino a Varese e a Bergamo. C’è che in definitiva la Lega e le sue istanze separatiste sono, sono sempre state e sempre saranno minoranza estrema. Nel paese, nei suoi sentimenti, al Nord come dappertutto.
E allora un leader, anzi di più un intero progetto politico, che hanno legato la propria sopravvivenza ai calcoli, alle mosse e ai tatticismi di Umberto Bossi, sono destinati a scivolare essi stessi in una dimensione minoritaria, evidente dietro i falsi e inattuali numeri parlamentari.
Berlusconi così non è più solo un alieno, l’invitato sbagliato alla festa. È l’ologramma di un progetto che voleva rovesciare e cambiare il paese (e poteva farlo) e invece s’è messo fuori gioco. Basta una festa, una celebrazione, un momento in sé formale, per smascherare l’inconsistenza e la minorità dell’armamentario di tiggiuni, giornali e videoappelli.
Il tricolore ai balconi e nelle piazze sventola oggi contro la destra di governo. La Russa può anche piangere, perché l’intera sua vita politica oggi perde di significato.
da Europa Quotidiano 18.03.11