La parola “stagflation” è un neologismo inglese da tempo entrato nel lessico economico. Indica una perversa combinazione di inflazione e recessione che, quando si verifica, penalizza pesantemente i “fondamentali” dell’economia, deprime i consumi e gli investimenti, falcidia i redditi, il commercio, l’occupazione, il credito e la tenuta dei conti pubblici. Avevo accennato a questo rischio nelle ultime righe del mio articolo di domenica scorsa prendendo spunto dalle cifre diffuse dalla Commissione di Bruxelles, ma non immaginavo che a distanza di poche ore la Banca centrale europea e il suo presidente l’avrebbero definita come un fenomeno incombente. Trichet è persona molto prudente; il suo timore sull’incombenza d’una “stagflation” su tutta l’area europea e la necessità che la politica monetaria della Bce si preparasse a fronteggiare quel fenomeno, ha messo in allarme i mercati producendone le immediate reazioni a cominciare dal tasso di cambio tra l’euro e il dollaro: la moneta europea è schizzata a 1,40 scontando la previsione di un aumento del tasso di interesse. Nei giorni seguenti e fino a ieri il tema della “stagflation” ha dominato su tutti gli altri, perfino sulla crisi libica e — per quanto ci riguarda — sulle ossessioni paranoiche e complottarde del nostro presidente del Consiglio. Sta veramente per scatenarsi una crisi di “stagflation”?
Di quale intensità? Quali ne sono le cause? Quali ne saranno i Paesi più colpiti? E quali strumenti saranno usati per fronteggiarla? Il ministro Tremonti ha risposto, come spesso gli avviene, con un´alzata di spalle. Ha per l´ennesima volta ripetuto che l´economica italiana è la più solida tra quelle europee anche se la nostra crescita è la più bassa. Ha messo in evidenza alcune cifre dell´Istat incoraggianti: il reddito è aumentato, il fabbisogno è diminuito, il deficit in percentuale del Pil è migliorato.
Conclusione: stiamo uscendo dalla crisi meglio degli altri; la minaccia di una “stagflation” è un incubo privo di fondamento anche se fa bene la Bce a predisporre i mezzi necessari per fronteggiare questa remota eventualità.
Speriamo abbia ragione anche se non ne siamo affatto sicuri.
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Le cifre dell´Istat sull´economia italiana non sono affatto rassicuranti. è vero che il Pil è aumentato di due decimali e il deficit è diminuito di mezzo punto, ma ci sono altri segnali molto preoccupanti: la cassa integrazione ha raggiunto un nuovo massimo storico, la disoccupazione è cresciuta fino al 30 per cento nella media nazionale, la crescita è ferma. Il debito pubblico in rapporto al Pil ha raggiunto la cifra-record del 119 per cento e si prevede che aumenterà ancora. La vendita di automobili ha registrato un´altra consistente diminuzione, la Fiat da parte sua è crollata. I consumi sono fermi, gli investimenti idem, la costruzione di infrastrutture zero.
L´inflazione è scattata al 2,4.
Dunque la combinazione tra inflazione e recessione per quanto riguarda l´Italia non è un´ipotesi improbabile e comunque remota; al contrario è un fenomeno già in atto.
Siamo già in piena crisi di “stagflation” e non risulta che il governo stia approntando un piano per farle fronte.
è molto probabile, stando alle dichiarazioni di Trichet, che in aprile la Bce aumenti il tasso di interesse di un quarto di punto che si diffonderà attraverso analoghi aumenti nel sistema bancario. Anche gli oneri derivanti dal debito pubblico aumenteranno.
La Bce non vuole scoraggiare la ripresa produttiva del continente e quindi non farà mancare la liquidità al sistema creditizio, ma è molto probabile che quella liquidità resti inutilizzata. Che cosa se ne fanno le banche se gli investimenti non riprendono? Potrebbero destinare la liquidità a sostegno di imprese già decotte. È pensabile che lo facciano? No, non è pensabile. La ridepositeranno presso la Bce guadagnandoci un punto percentuale e/o la investiranno in titoli pubblici facendone aumentare il rendimento alle aste.
Cioè finanziando il Tesoro al maggior costo possibile.
Un tempo questa tecnica si chiamava “circuito di capitali” e fu largamente usata in tempi di guerra: il Tesoro si indebitava con le banche e le banche si finanziavano collocando i titoli in mani private. La liquidità girava su se stessa e non promuoveva nessuna crescita produttiva, salvo il funzionamento delle imprese che lavoravano per la guerra.
Adesso le guerre sono locali e c´è comunque bisogno di finanziare le molto costose iniziative di pace, come le chiamano. Il circuito di capitali funziona così ed è un egregio strumento di emergenza, ma l´effetto di fondo è un aumento costante dell´inflazione. Un effetto secondario ma importantissimo: l´inflazione infatti riduce il valore reale dei redditi fissi, salari e pensioni. Cioè riduce il potere d´acquisto dei ceti deboli. I ceti forti invece recuperano gli effetti dell´inflazione trasferendoli sui prezzi.
L´inflazione infatti è un´imposta regressiva: accresce le diseguaglianze sociali.
Immagino che Tremonti sia d´accordo con questa diagnosi e sia anche d´accordo sul fatto che l´inflazione è provvidenziale per il debitore sovrano, cioè il Tesoro. Più alta è l´inflazione e più diminuisce il valore reale del debito.
Questo è vero per tutti i Paesi della moneta unica. Per fortuna la Bce è molto attenta a combattere l´inflazione e perciò, al bisogno, continuerà la manovra sul tasso di interesse. L´effetto è quello già in atto: aumenta il tasso di cambio dell´euro incoraggiando le importazioni e scoraggiando le esportazioni. Le merci americane, tanto per fare un esempio non marginale, diventeranno più convenienti delle analoghe merci italiane. Quindi importeremo recessione. La “stagflation” funziona proprio così.
Piacerebbe che il nostro governo spiegasse i suoi intendimenti. Purtroppo non lo fa. Così come non lo fa Marchionne (tanto per dire) quando gli si chiede come e dove investirà quei dieci (o venti?) miliardi di investimenti che si è impegnato a destinare alle fabbriche italiane della Fiat e di cui, allo stato dei fatti, sappiamo soltanto che andranno per un miliardo a Mirafiori e per ottocento milioni a Pomigliano.
Le reticenze di Marchionne e quelle di Tremonti sono identiche e anche il loro effetto sociale è identico: in un clima di “stagflation” gli effetti negativi saranno scaricati sui ceti deboli, sui giovani, sulle donne.
Non va bene. Non va affatto bene.
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Conosciamo la risposta di Tremonti: riforme senza spese, riforme a costo zero, riforme “liberali” capaci di rianimare il mercato e le vocazioni imprenditoriali.
Crediti di imposta per chi investe, pagati dallo Stato a babbomorto ma scontabili in banca, magari con prestiti agevolati.
Vedo che anche l´amico Giavazzi sul Corriere della Sera di qualche giorno fa incoraggia riforme senza spese pur criticando le diagnosi di Tremonti.
Giavazzi mette il dito su una piaga (ed ha ben ragione di farlo) quando denuncia le tariffe bloccate dei vari ordini professionali e ne propugna lo sblocco. Sarebbe una buonissima riforma senza spese, ma di ambito piuttosto limitato.
In realtà sappiano tutti benissimo – anche Tremonti lo sa – che esiste un solo strumento per rilanciare la crescita senza attenuare il rigore e la tenuta dei conti pubblici: il fisco. Del resto è questo strumento che Tremonti ha adottato nel decreto per il federalismo municipale e che presumibilmente adotterà anche per quello del federalismo regionale: ha delegato ai Comuni (e lo farà con le Regioni) di inasprire le imposte e istituirne di nuove e/o di lesinare i servizi pubblici di loro competenza.
Siamo pienamente d´accordo con lui contro un´imposta patrimoniale che produrrebbe un´esportazione di capitali massiccia e intollerabile (sebbene una “patrimonialina” opportunamente camuffata sia stata concessa al fisco comunale) ma questo non esaurisce il tema d´una manovra di rilancio attraverso il fisco nazionale. La Finanziaria in corso ha infatti escluso da ogni contribuzione sia i ceti ad alto reddito sia i ricchi e ricchissimi. Non ha tassato le rendite finanziarie, non ha toccato i redditi variabili.
Voglio qui ricordare che il governo Prodi, con Ciampi al Tesoro e Visco alle Finanze, per agganciare l´Italia all´euro – la sola grande riforma degli ultimi quindici anni – tassò i ceti medi alti, i ricchi ed anche le imprese con un´imposta che fu battezzata “tassa per l´Europa”.
Fruttò un gettito di dodicimila miliardi di lire, pari a sei miliardi di euro.
Era una “una tantum”, di cui quel governo restituì il 60 per cento due anni dopo come aveva promesso e che fu pagata senza particolari resistenze e opposizioni da parte dei contribuenti. Gli italiani avevano capito l´importanza dell´obiettivo, avevano fiducia in quel governo di persone perbene e si assunsero senza fiatare la loro parte di sacrificio.
Tremonti ha in programma una riforma fiscale che, secondo quanto ha più volte dichiarato, dovrebbe spostare il peso tributario dalle persone alle cose. Di più non ha detto, ma non è difficile immaginare che rinasceranno imposte che un tempo si chiamavano “reali”: la “fondiaria”, la “ricchezza mobile” e altre analoghe.
Luigi Einaudi, all´epoca sua, apprezzava molto questo tipo di imposizione che ha natura sostanzialmente proporzionale perché appunto si applica alle cose e non al reddito complessivo delle persone e delle imprese. Ma poiché bisogna comunque non smarrire il meccanismo della “progressività” del carico tributario per ragioni di evidente equità sociale, lo stesso Einaudi caldeggiava una tenue imposta patrimoniale ordinaria nonché una forte imposta sulle successioni che assicurasse un obiettivo che gli stava molto a cuore: l´eguaglianza delle posizioni di partenza – come lui le chiamava – e che oggi meglio si chiamano le “pari opportunità”.
Richiamo gli insegnamenti einaudiani non solo perché vengono da uno dei grandi maestri della scienza delle finanze, ma anche da un grande liberale che oggi molti citano a sproposito come conservatore accanito. Luigi Einaudi, come tutti i veri liberali, non era affatto un conservatore ma un riformista a 24 carati.
Tornando al fisco dei tempi nostri, la proposta è di tassare subito chi ha un adeguato imponibile, da oggi fino a quando la riforma fiscale sarà varata, e col ricavato rilanciare la crescita. Se il Pil del 1998, che era notevolmente inferiore a quello di oggi, dette un gettito di sei miliardi di euro, il Pil del 2011, nella stessa proporzione, ne darebbe probabilmente il doppio o poco meno. Tra rendite e manovra “una tantum” il rilancio della crescita disporrebbe d´una cifra ragguardevole senza minimamente allentare la tenuta dei conti.
Questa proposta potrebbe esser fatta propria dai partiti d´opposizione e portata in Parlamento. Noi ce lo auguriamo per il bene del Paese.
La Repubblica 06.03.11