Lea Melandri è una delle figure più note del femminismo italiano. Anticipiamo la sua prefazione al nuovo saggio edito da Bollati Boringhieri: «Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà».. Il sussulto di dignità e l’invito che oggi, da schieramenti diversi, viene rivolto alle donne, affinché si ribellino all’immagine degradante con cui sono rappresentate dalla pubblicità e dalla televisione, non deve trarre in inganno. Il corpo femminile occupa la scena mediatica da molti anni, l’immaginario pornografico ha contaminato ormai ogni ordine di discorso e di linguaggio, l’esibizione e il voyeurismo, sapientemente amalgamati dai reality show, sono subentrati, se mai è esistita, alla fruizione passiva dello spettatore. Il risveglio improvviso di coscienze morali offese, di intelligenze femminili «umiliate» dalla mercificazione che si fa del loro sesso, è venuto al seguito di vicende che non potevano lasciare indifferenti, perché avevano come protagonista una delle maggiori cariche dello Stato, il presidente del Consiglio, e come materia scottante le prestazioni sessuali scambiate indifferentemente con denaro, carriere politiche o televisive. Di donne-oggetto, donne-immagine, donne-ornamento, chiunque abbia dato un’occhiata alla televisione, ne ha viste transitare sui teleschermi a flusso continuo, in fasce di orario protette e non protette, trasmissioni colte o di intrattenimento, filogovernative o di opposizione. L’uso del corpo femminile come abbellimento estetico o solleticazione erotica, da affiancare a una parola che resta pur sempre quella dell’uomo, si riconosce, al di là delle appartenenze politiche, per quel marchio d’origine che lo colloca, inequivocabilmente, dalla parte del sesso vincente.
Eppure, è come se l’evidenza che passa sotto gli occhi di tutti, quando per strada o alle fermate della metro alziamo gli occhi su un muro, quando accendiamo la televisione o sfogliamo un giornale, avesse avuto bisogno, per rendersi visibile, di una scossa dall’esterno, dal mondo stesso che la produce. Tale è stata la vicenda che ha visto implicati Silvio Berlusconi, veline ed escort. Per chi ha alle spalle un percorso ininterrotto di cultura e pratica femminista, è irritante sentir parlare di «silenzio delle donne», ma bisogna anche avere il coraggio di porsi interrogativi scomodi e imbarazzanti su quella che oggi appare vistosamente come una contraddizione: un movimento che ha dato alle donne una circolazione e una cittadinanza nel mondo finora sconosciute, ma che le ritrova inspiegabilmente «adattabili», poco inclini ad aprire conflitti, acrobate protese a sorreggere l’impossibile conciliazione tra due realtà fatte per restare separate, la casa e la polis, il corpo e il pensiero, la femminilità e la durezza virile, gli affetti e la complessità della vita sociale.
Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili – l’economia, la politica, la scienza ecc. – faceva pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella «naturale» o «divina missione», che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine» (Paolo Mantegazza), oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalle mura domestiche. Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica: quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.
Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il Sole 24 Ore, non c’è giorno che non si elogi il valore D, il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di «supermamme», capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera. Ma dove il «femminile» è esploso, cogliendo di sorpresa chi aveva previsto un lento e faticoso approssimarsi delle donne all’autonomia da modelli imposti, è stato nei mezzi di comunicazione, in particolare nella televisione, nell’industria dello spettacolo e nel mercato pubblicitario. Il dibattito che si è acceso sulle veline e sulla folta schiera di avvenenti intrattenitrici che si muovono intorno a uomini di potere, flessibili al punto da passare con noncuranza da concorsi di bellezza alla Camera dei deputati, ha fatto gridare alla barbarie, temere la fine o il fallimento di un secolo di emancipazione. Anche in questo caso si tratta di giudizi approssimativi, lontani dalle analisi che il pensiero delle donne è venuto facendo su ciò che permane degli stereotipi di genere, al di là di cambiamenti evidenti del contesto sociale. Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarità, «quel profondo, benché irrazionale istinto» – come ha scritto Virginia Woolf – a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, «provoca la massima soddisfazione», rende la mente «fertile e creativa».
Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco o per nulla indagate, queste zone più intime del rapporto tra i sessi ricompaiono oggi deformate sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale. Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile – le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione – a essere impugnati come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come fuga da un femminile screditato, oggi è il femminile – il corpo, la sessualità, l’attitudine materna – a emanciparsi come tale e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile della cultura maschile. Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato. La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi e come nell’illusione amorosa fa balenare la possibilità di una «tregua». Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu, «la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile» del potere dell’uomo sulla donna. È necessario perciò tornare a scavare là dove si arresta il viaggio di Freud, l’«avventuriero dell’anima», il grande indagatore della felicità: in quella «roccia basilare» che è il «rifiuto della femminilità», l’inspiegabile intreccio di Eros e Thanatos, l’odio che nasce ogni volta dall’amore, nella vita personale come nella sfera pubblica.
L’Unità 03.03.11