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"Egoismi e Paure", di Gian Antonio Stella

Ma se si chiamassero Pedro o José e fossero bombardati da un golpista sudamericano? Se si chiamassero Pak o Koo e fossero mitragliati da un carnefice nordcoreano? Se si chiamassero Oja o Boris e fossero sgozzati da un nuovo macellaio cetniko? È il dubbio che rode a vedere come tanti politici italiani guardano al massacro dei libici facendosi una sola domanda: e noi? Certo, è ovvio che ci poniamo il problema di cosa succederà a casa nostra. Di più: è sacrosanto. Quanti disperati si rovescerebbero con i barconi sulle nostre coste se andasse tutto nel peggiore dei modi? Come potremmo gestire un’ondata migratoria mai vista? Riusciremmo a essere insieme vigili guardiani di un filtro indispensabile e buoni samaritani al soccorso di una umanità sofferente? Cosa farebbero gli altri europei? Accorrerebbero a darci una mano o guarderebbero altrove lasciandoci nelle peste?

Sono domande doverose. Imposte da questa specie di esplosione nucleare dagli esiti imprevedibili deflagrata a poche decine di chilometri dai nostri confini. Lo studioso Khaled Fouad Allam si è spinto a scrivere sul Sole 24 Ore che la Libia potrebbe diventare, per la sua storia, per i suoi conflitti secolari, «l’Afghanistan del Mediterraneo». Come potremmo non stare in guardia? Come potremmo non essere preoccupati? Eppure questa non può essere la sola, unica, esclusiva nostra preoccupazione. Non può ruotare tutto ossessivamente intorno a noi. Perché laggiù in Libia, sotto i nostri occhi, a pochi minuti di volo dall’Italia, stiamo assistendo a un bagno di sangue che ci fermerebbe il fiato e ci strapperebbe grida di raccapriccio se solo le vittime di tanta ferocia repressiva non fossero arabi, berberi, islamici. Impastati tutti insieme, integralisti e laici, cammellieri e architetti, beduini sahariani e ragazzi cresciuti col Web che sognano solo la stessa libertà che hanno i ragazzi olandesi o americani.

Abbiamo tra l’altro due responsabilità in più. La prima è che quello che Ronald Reagan chiamava «il cane di Tripoli» e oggi sta azzannando rabbioso i suoi stessi cittadini, è stato fino a pochi giorni fa riverito e adulato, con minori o maggiori gradazioni di piaggeria, da un po’ tutti i governi italiani. Convinti che «i vicini non si possono scegliere» e in fondo in fondo per noi fosse meglio che l’Africa più vicina fosse schiacciata sotto il tallone di un po’ di duci muscolosi piuttosto che esposta ai brividi pericolosi della democrazia. La seconda è riassunta in un motivetto sull’invasione della Libia del 1911 il cui prologo risuona spavaldo: «Sbalorditi i musulmani stavan tutti a naso ritto / ma d’un tratto a capofitto bombe e fuoco gli arrivò / Assediato e bombardato sia di sopra che di sotto / il vil popolo corrotto all’Italia s’inchinò». Ecco, un secolo esatto dopo la brutale conquista di quello «scatolone di sabbia», dopo decenni di disprezzo per quelle genti «inavvezze al lavoro», dopo le foto dei nostri plotoni d’esecuzione che fucilavano anche i ragazzini, dopo i campi di concentramento nel deserto della Sirte dove Angelo Del Boca ha dimostrato che morirono decine di migliaia di donne, vecchi e bambini, abbiamo verso quei libici scesi nelle piazze per liberarsi di un dittatore capriccioso e feroce dei doveri in più. È giusto che ci preoccupiamo «anche» per noi. Ma non ci siamo solo noi.

Il Corriere della Sera 24.02.11