Escobar: «Il Piccolo risponde ai tagli con le migliaia di giovani»
Tredici anni fa, a inaugurare «l’era Escobar» al Piccolo fu proprio Peter Brook, con un famoso «Don Giovanni» in jeans, più simile a un fanciullo capriccioso che a un tragico seduttore. Quest’anno il Papageno del suo «Flauto magico» promette un infantilismo giocoso, irriverente. E al primo piano degli uffici del Piccolo Teatro, in largo Greppi, Sergio Escobar sorride irrequieto dietro un fondale colorato, simile a una trincea di cartapesta: «Resistiamo — afferma —: dalla nostra abbiamo il potere del disturbo» . Perché c’è una forza sottile nell’essere scomodi, nel non cercare scorciatoie compiacenti e, dopo tredici anni, continuare a proporre la filosofia asciutta ma complessa di Brook. O «Vita e destino» , in cui Lev Dodin trasforma il capolavoro di Vasilij Grossman in un’epopea universale. Il potere del disturbo è mettere in scena Shakespeare in russo, produrre autori estremi come Bond e Harrower. E non è casuale in ufficio la locandina di «Miracolo A Milano » , restaurato e proiettato al Piccolo per i sessant’anni del film. «Il titolo originale— dice Escobar— è “I poveri disturbano”» . Poveri perché il teatro è indigente per definizione, specie se non cede alla logica dei grandi numeri, nonostante il «sovrintendente filosofo» , come lo chiamava Luciano Berio, abbia una spiccata propensione a elencare cifre: «Spettacoli in diciannove lingue, bilanci in attivo nonostante i tagli ai fondi per milioni di euro a stagione venduta. Eppure, nonostante questo, la metà degli spettatori ha meno di 26 anni» . Fin qui, il sovrintendente. Ma il filosofo rabbrividisce quando sente la domanda che tanti politici si fanno di questi tempi: a che cosa serve la cultura? L’allievo di Ludovico Geymonat alla Statale sa bene che le risposte sono superflue. «L’unica replica possibile — sospira — sta nelle migliaia di ragazzi che affollano le anteprime di Peter Brook e si ritrovano nel suo linguaggio profondo; nel successo che ha incassato uno spettacolo “maleducato”e controverso come “La compagnia degli uomini”; nei grandi registi di livello internazionale che continuano a scegliere il nostro palcoscenico» . Pensatore, prima che impresario, Escobar sa bene che il bello non deve inseguire le grandi folle: sono le grandi folle che, prima o poi, inseguiranno il bello. E sin dall’inizio, raccogliendo l’eredità di Giorgio Strehler, la strada maestra è stata quella di un respiro europeo, anzi, planetario. Non dimentichiamo che lo stesso Strehler, nei primi anni Settanta portava «Le baruffe chiozzotte» nei teatri polacchi. «Ricordo — si scalda il direttore— che a Shanghai hanno cominciato a ridere del nostro Arlecchino solo quando abbiamo tolto i sopratitoli in italiano. La cultura trascende i confini. Non ha la funzione del profitto “qui ed ora”, ma rappresenta la spina dorsale del presente» Escobar fa notare che la prima pagina dedicata dal New York Times alla «Trilogia della Villeggiatura» di Goldoni (con Toni Servillo) proposto al Lincoln Center di New York dal Piccolo è una straordinaria promozione anche economica per il nostro Paese. Come lo sono state le co-produzioni internazionali, per esempio il Pirandello messo in scena insieme allo Shanghai Theatre Academy. Ma i soldi scarseggiano e i conti della serva sono inevitabili anche quando si parla di Bertold Brecht. Eppure, proprio un testo come «Madre Coraggio e i suoi figli» (nel 2006 al Piccolo per la regia del canadese Robert Carsen) può avere una sua schietta funzionalità pratica, aiutandoci a capire le radici del disastro economico in atto, quando ci mostra la piccolezza della lotta tra capitalisti, con l’avida vivandiera che esclama: «La corruzione è la nostra unica speranza. Finché c’è quella, i giudici sono più miti» . Non solo. Escobar ricorda l’apertura al teatro africano, con il Festival del mediterraneo, che nel 2004 sembrava follia ma che si è dimostrata una scelta lungimirante. «Subito dopo — afferma — si è cominciato a parlare di Milano come raccordo, anche economico, nell’area» . La politica è logica dei numeri e ben poco ha a che fare con l’orgoglio indigente dell’attore (Escobar ricorda un Ferruccio Soleri uscire dal camerino con i vestiti raccolti in un sacchetto di plastica). E potrebbe non bastare nemmeno la mano tesa di un direttore testardo che si addolcisce: «Mi auguro — conclude— è che il Piccolo possa continuare a fare il Piccolo» . Potrebbe però giovare l’esempio di un altro politico, di un sindaco di Milano, Antonio Greppi. Nel 1946, quando la città era in ginocchio e non c’era nemmeno da mangiare, lui che fece? Diede fiducia a due giovani intellettuali, Paolo Grassi e Giorgio Strehler e li sostenne più tardi nella fondazione del primo teatro cittadino a gestione pubblica. In pratica investì in cultura. La chiamò «l’altro pane» .
da il Corriere della Sera
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«A teatro per salvare il mondo. Con coraggio e speranza», di Claudia Provvedini
Il regista: non servono i maestri, ma l’esperienza sul palcoscenico. Le idee da sole non portano da alcuna parte
«In una, due ore, basta anche un minuto, il teatro ti fa rivivere l’essere umano, la vita» . Magari si potesse così salvare il mondo… «… che va di peggio in peggio. Ma una minoranza non elitaria può trovare coraggio, speranza e invertire la tendenza». Se di Peter Brook si potessero ascoltare spesso le parole e guardarne gli occhi azzurri, la crisi sembrerebbe assurda e il tempo non passare. Ha lo sguardo di un bambino, o di un saggio illuminato, il che forse è lo stesso. Tra le file del suo straordinario «sgarrupato» Bouffes du Nord di Parigi, al debutto di «Une flute enchantée» coprodotto col Piccolo, sedeva con l’inseparabile collaboratrice Marie-Hélène Estienne anche Brook: difficile era capire la differenza tra la luce del suo viso e quella di tre ragazzini sulle poltrone rosse poco più avanti, una luce passata poi a tutto il pubblico che, rapito dai colori, dalla bellezza, dalla storia scavata nel cuore della partitura di Mozart, usciva pieno di gioia. Ed ecco la pièce in scena dal 24 allo Strehler, per un appuntamento che in 40 anni è sempre stato magico. «Ho una relazione speciale, tenera, calorosa col Piccolo, realtà importante per la cultura del mondo» . A volte però negli occhi di Brook passano «lampi» , pur se il tono è sempre meditato e gentile. «Vecchia» domanda: perché si va a teatro? «Credo ci siano persone che ci vanno per addormentarsi…— dice con l’ironia born in London classe 1925 — oppure per rassicurarsi che le loro idee e pregiudizi sono giusti. Ce ne sono altre che ci vanno per confrontarsi con dei problemi, dei perché che sono affiorati… persone che vengono per rinnovarsi» . Quasi 70 anni di mestiere, tanti Shakespeare, tanti viaggi nelle altre culture, da Bali all’India all’Africa per far nascere capolavori, Lei è un grande maestro… «Io non credo ai “maestri”. Credo solo all’esperienza. Le idee di per sé non ci portano da nessuna parte, ma i frutti dell’esperienza vissuta possono essere spartiti, condivisi. È per questo che esiste il teatro» . Poi, come già in occasione del suo spettacolo «Warum» , spiega: «In fondo è uno solo il “perché?”che attraversa anche la vita: e non si esaurirà mai» . Almeno finché ci porremo domande, ma se tutto va male, che ce ne facciamo del teatro, delle sue emozioni in diretta? «È uno dei suoi misteri — dice sorridendo —: ci emozioniamo perché a porsi quei dubbi è un essere umano. Non c’è niente di teorico» . Negli spettacoli di Brook, in effetti, è sempre messo al centro della storia, qualunque sia l’opera da cui si parte, un problema piccolo o grande che viene dal quotidiano o dalla fantasia; seguiamo quel che succede in scena per risolverlo, ma alla fine non c’è nessuna morale, resta «la porta aperta» , come dice il titolo di uno dei bei libri scritti dal regista. Si ha così l’impressione con «Une flute enchantée» di veder la storia per la prima volta, che la sua musica e le parole siano quasi «inventate» dagli attori e dai cantanti attori, come se Mozart fosse entrato in loro o viceversa. È da «Tragédie de Carmen» , 1981, che Brook sogna di affrontare il Flauto. «Negli ultimi 30 anni— racconta — ho visto molte regie del “Flauto”e ho potuto constatare che ciò che pesa su tutto è l’immagine che noi ci siamo fatti e che attendiamo venga riprodotta. L’idea è invece di arrivare a far sì che i cantanti— e sono giovani— procedano in una maniera naturale, viva e piena d’amore nello sviluppo della trama senza che si impongano proiezioni, costruzioni, video, scene girevoli…» . E cioè come ha lavorato con i suoi attori? «Noi cominciamo senza alcun elemento di scenografia, ma partendo dalla musica, chiedendoci come riuscire a farla sentire leggera, senza la parte grave e solenne di un’opera lirica. Affrontandola con spirito di gioco. Mozart si reinventa ad ogni istante, ed è in questa direzione, di grande rispetto per ciò che è essenziale, che abbiamo lavorato. Con l’intuizione che in Mozart non è questione di nascondere o modernizzare, ma di far apparire» . Ha detto a «Le Figaro» che con la Flute, con un Mozart lascia la direzione delle Bouffes. Non farà più teatro? «No, lascio la direzione, ma riprendo cose di teatro rimaste in sospeso. Io vivo il presente, non so bene come ho cominciato né come finirò» . È un segreto il prossimo progetto? «Sì, anche per me» .
da il Corriere della Sera