Vagamente surreali nella loro dimensione istituzionale, le polemiche intorno al carattere festivo o lavorativo del prossimo 17 marzo diventano altrimenti significative nel momento in cui investono – oltre alla sfera dell’economia – la sfera della pedagogia: il problema del rapporto fra scuola italiana e identità nazionale. Qui, non si tratta di piegare le polemiche sul “festa sì” o “festa no” o “festa lavorando” al piccolo cabotaggio della lotta politica. Dietro il dibattito sulle celebrazioni dell’Unità si nasconde una faccenda più grave, che riguarda le modalità stesse con cui un discorso pubblico sulla storia d’Italia viene trasmesso alle nuove generazioni.
Inutile nasconderselo: dall’Alto Adige alla Sicilia, le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità stanno suscitando reazioni che alludono a un malessere profondo. Siano leghisti che si ribellano contro un secolo e mezzo di “Roma ladrona”, siano meridionalisti che denunciano la “piemontesizzazione” forzata delle loro contrade, siano qualunquisti di ogni latitudine peninsulare, sta di fatto che molti italiani vedono avvicinarsi il 17 marzo con un senso di estraneità o addirittura di fastidio. Possibile che la scuola italiana – di ieri e di oggi – non si senta chiamata in causa dall’evidenza di tale disagio?
Beninteso, le responsabilità della scuola non spiegherebbero tutto. Lo spettacolo attualmente offerto dalla classe dirigente (e da colui che si era autodefinito, tempo fa, il più grande presidente del Consiglio dal 1861 in avanti) contribuisce assai poco a riscaldare negli animi la passione dell’essere italiani. Eppure resta da chiedersi se la scuola abbia fatto e faccia tutto il necessario per trasmettere agli scolari – in numero crescente, figli di non italiani – una certa idea dell’Italia e di alcuni suoi meriti davanti alla storia.
In particolare, c’è da chiedersi se l’Italia del 2011 non paghi il prezzo di un insegnamento della storia troppo a lungo incentrato su un canone: il canone definito dai sacrosanti programmi ministeriali, ma ancora più il canone di una Storia declinata – per così dire – con la esse trionfalmente maiuscola, anziché con una esse minuscola che la faccia sentire più genuina, più vera, più vicina alla vita.
Lo sanno bene i migliori insegnanti delle nostre scuole secondarie: non appena un discorso sul passato della nazione abbandona il tono solenne della storia canonica per inseguire l’effetto di realtà delle situazioni locali, dei percorsi individuali, delle storie di vita, subito l’attenzione dei ragazzi si accende. E la famigerata “ora di storia” produce, anziché disinteresse o noia o rigetto, sentimenti di partecipazione, di appartenenza, addirittura d’identificazione.
Quando l’insegnante dice «Giolitti» o «De Gasperi», o anche «Garibaldi» o «Matteotti», quel nome cade irreparabilmente nel vuoto. Ma quando l’insegnante dice a uno scolaro: «Domandati chi era il garibaldino che dà il nome alla via in cui abiti», o invita la classe: «Facciamo una ricerca sul partigiano caduto la cui lapide sta appesa al muro davanti alla scuola», o sollecita: «Chiedete alle vostre nonne di raccontarvi cosa si ricordano della loro giovinezza», allora i ragazzi vengono raggiunti, si interessano, studiano…
Il sentimento della storia è cosa diversa, evidentemente, dal senso della storia: ed entrambi sono necessari a costruire il rapporto di un individuo con il passato della sua collettività. Ma il sentimento della storia, in quanto si nutre di appartenenza, ha bisogno di ancoraggi sul territorio più di quanto ne richieda il senso della storia, che si nutre di intelligenza. E più che mai ha bisogno di ancoraggi territoriali il sentimento della storia d’Italia, la quale – insegnava già Carlo Cattaneo – è essenzialmente una storia di città: è storia di piazze, di torri, di palazzi, di campanili.
La scuola italiana può contribuire a rafforzare l’identità nazionale anche attraverso un rinnovato impegno degli insegnanti sulla storia locale. Purché tale impegno non assuma le forme striminzite del localismo (o del provincialismo, o del regionalismo): magari sbandierando una leggina sul coinvolgimento dei consigli di classe (e quindi dei genitori-elettori) nella definizione dei programmi scolastici.
Non di questo si avverte la necessità, ma piuttosto – per riprendere una parola alla moda – di narrazioni che riescano davvero coinvolgenti. Perché ciascuno dei nostri ragazzi si convinca che la storia d’Italia non soltanto parla a lui, ma parla di lui: de te fabula narratur.
Il Sole 24 Ore 16.02.11