Anche in una situazione torbida come quella in cui ci troviamo, la politica è fatta di numeri. E su questo terreno, è vero, Silvio Berlusconi gode di un vantaggio. Esiguo alla Camera e più consistente al Senato. Tra breve potrebbe persino arricchire il suo carniere con due o tre nuovi arrivi grazie alle inquietudini di «Futuro e Libertà».
Tuttavia la politica non è fatta solo di numeri, com’è noto, ed è qui che nasce quel senso di crescente insicurezza che si va diffondendo nel paese.
Dov’è lo slancio, dov’è la capacità di progettare e realizzare? È reale il rischio di vedere la maggioranza ingessata all’interno di una teca di cristallo in cui i numeri sono custoditi con cura, ma senza che si trasformino in atti di governo. Non sarebbe una condizione di stabilità, bensì la caricatura della stabilità.
Eppure è quello che sta accadendo, man mano che la tenaglia delle inchieste giudiziarie si stringe intorno al presidente del Consiglio. È una situazione che non ha precedenti e come tale va valutata. Sappiamo che il Gip di Milano sta per decidere sul «rito immediato» chiesto dalla procura. Lo scenario di una condanna in tempi brevi di Berlusconi, e di una sua interdizione dai pubblici uffici, a questo punto è tutt’altro che assurdo, a meno che lo stesso Gip non decida per la procedura ordinaria.
Anche in questo caso la minaccia giudiziaria continuerebbe a incombere, dal caso Ruby all’affare Mills, finendo per condizionare sul piano politico e psicologico l’attività del premier. Questa è la realtà, pur volendo riconoscere al presidente del Consiglio le ragioni di chi si sente vittima di un accanimento fuori del comune. Tale da deformare la normale evoluzione del confronto politico.
In ogni caso, all’interno di questa cornice s’inserisce il dissidio tra Quirinale e Palazzo Chigi sull’eventuale scioglimento delle Camere. È una questione, come si può capire, assai delicata che rischia di evolvere in un grave conflitto istituzionale.
Ma siamo ancora in tempo per darne un’interpretazione politica. Volendo semplificare, si può dire che una maggioranza paralizzata intorno ai processi che riguardano il premier produce un Parlamento bloccato. Ed è difficile credere che si possa congelare la legislatura per oltre due anni.
È vero che la stabilità è necessaria per affrontare i nodi dell’economia, ma solo quando essa costituisce la premessa per ben operare. Altrimenti, se così non è e se il quadro generale risulta deteriorato e privo di alternative valide, l’unica medicina conosciuta in democrazia è il ritorno ai cittadini elettori. Ora, è evidente che l’allusione di Giorgio Napolitano allo scioglimento delle Camere rappresenta soprattutto un modo per stimolare il governo e il suo presidente.
Un Parlamento ingessato e privo di un’agenda di lavoro è forse la sola cosa che l’Italia non può augurarsi nelle attuali condizioni. E il presidente del Consiglio dovrà misurare con se stesso e con la sua maggioranza se ritiene di essere ancora in grado di guidare il governo.
Per la verità, la risposta di Berlusconi è stata immediata ed è una rivendicazione orgogliosa della coesione parlamentare e del suo diritto ad andare avanti. Argomento convincente che però deve fare i conti con due passaggi. Primo, lo abbiamo già detto, il ginepraio giudiziario: esiste una soglia oltre la quale il cortocircuito fra politica e tribunali diventa insopportabile perché si ripercuote sugli affari pubblici. Non siamo ancora a quel punto e Berlusconi è forse ancora in grado di riprendere la leadership. Ha provato a farlo con il «piano per la crescita», ma c’è bisogno di molto di più. Fatti concreti invece di buone intenzioni.
Secondo, il sentimento della sua maggioranza, costruita sull’asse Pdl-Lega. Finora Umberto Bossi ha sempre confermato l’assoluta lealtà al premier e sarà così anche nel prossimo futuro. Ma l’interesse politico della Lega a puntellare un governo dilaniato dalla magistratura e un Parlamento bloccato potrebbe non essere eterno. Tra un paio di mesi, forse meno, il complicato iter dei decreti sul federalismo sarà compiuto. Non sarebbe strano se a quel punto il Carroccio ritrovasse un po’ della sua autonomia e decidesse che la legislatura è finita (il ministro dell’Interno Roberto Maroni sembra già su questa posizione, e non da oggi).
Come dicevano i nazionalisti tedeschi che si opponevano a Napoleone, «meglio una fine nell’orrore che un orrore senza fine». Potrebbe adattarsi alla Lega, di fronte alla prospettiva di tener in vita ancora per due anni un Parlamento inerte.
Un fatto è certo. L’eventuale scioglimento delle Camere non avverrebbe per un’improvvisa decisione del presidente della Repubblica, ma – è ovvio – seguendo le procedure costituzionali. Sarebbe necessario un fatto politico: una sconfitta parlamentare del governo, il distacco di una componente, una conclamata situazione di paralisi. E naturalmente occorrerebbe una forma d’intesa con il premier, la cui controfirma al decreto di scioglimento è prevista dalla Costituzione. Di solito è una formalità che si risolve con il buon senso e con il rispetto istituzionale. Se questa volta non fosse così, ci troveremmo di fronte al conflitto più drammatico. Ma c’è da sperare che non arriveremo a quel limite estremo.
Il Sole 24 Ore 15.02.11