Sempre più brevi i Consigli dei ministri: l’ultimo è durato cinque minuti, la media supera di poco un’ora. Da gennaio l’unico iter completato riguarda la conversione del decreto sui rifiuti. Sempre più brevi i Consigli dei ministri: l’ultimo è durato cinque minuti, la media supera di poco un’ora. Una sola legge sfornata in quarantaquattro giorni. E non siamo nel bel mezzo della calura estiva o nel pieno della campagna elettorale. Per giunta, non si può certamente dire che sia stato un provvedimento particolarmente impegnativo per il Parlamento: la conversione in legge di un decreto approvato dal governo a novembre dello scorso anno sui rifiuti della Campania. Il bilancio dell’attività legislativa di Camera e Senato dal primo gennaio 2011 è tutto qua. Un vuoto senza precedenti, che difficilmente sarà colmato. Date un’occhiata ai calendari: dopo la sfacchinata dal Milleproroghe, altro provvedimento con targa governativa sul quale i deputati si sono accapigliati nel tentativo di infilarci dentro di tutto, comprese norme maleodoranti come il blocco delle demolizioni delle costruzioni abusive in Campania o l’ennesimo condono edilizio, la Camera ha in programma la discussione di alcune interrogazioni, qualche mozione sonnacchiosa e disegni di legge parlamentari senza alcuna speranza di passare. Basta dire che durante tutto lo scorso anno di proposte non governative ne sono state approvate soltanto dieci. Il minimo storico. Come al minimo storico sono le sedute. Nei 409 giorni trascorsi dal primo gennaio del 2010 l’Aula di Montecitorio si è riunita in 171 occasioni. Ancora più sporadicamente quella di Palazzo Madama. Dove i giorni di seduta sono stati 129. Conosciamo le obiezioni. «L’attività parlamentare non si può limitare alle sedute. Per esempio, ci sono le commissioni…». Vero. Ma a parte la singolarità di certi organismi (nel Parlamento del Paese con le leggi più complicate del mondo c’è da anni anche una commissione per la semplificazione normativa, ed esistono ben due diverse commissioni d’inchiesta sulla sanità pubblica), il loro lavoro dovrebbe sfociare quasi tutto nell’Aula. Per non parlare dei casi in cui le commissioni fanno da tappo, com’è avvenuto in occasione del pareggio sul voto al federalismo. Un imprevedibile effetto degli scossoni politici che hanno investito il centrodestra, certo. Ma pur sempre un bel contributo alla paralisi che stiamo vivendo.
La situazione non sarebbe tanto diversa se a votare le leggi fossero soltanto i capigruppo, come ha proposto un paio d’anni fa Silvio Berlusconi («era una provocazione, un paradosso», si corresse poi il premier). Per il semplice fatto che da votare c’è ben poco. Quanto sia ormai profondo il senso di inutilità e frustrazione dalle parti del Parlamento lo dice il clamoroso gesto di un senatore ritenuto rispettabile come Nicola Rossi. Che ha spiegato la sua decisione di gettare la spugna in questi termini: con questo sistema elettorale i parlamentari sono nominati dai partiti, e non avendo investitura popolare non possono avere indipendenza di giudizio, e senza di questa non si lavora. Stop. Preso atto che tale stato di cose non si può cambiare con un colpo di becchetta magica, non ha potuto fare altro che dimettersi. Non soltanto dal suo partito, con il quale si trovava comunque in dissenso per ragioni politiche, ma dal Senato. Consumando così fino in fondo il divorzio da un Parlamento la cui funzione principale è diventata quella di ratificare leggi preconfezionate a scatola chiusa dagli uffici governativi.
Cosa che invece non hanno fatto altri, i quali pure a parole avevano manifestato disagio. Il leghista Matteo Brigandì , per esempio: «Mi dimetto perché non ha più alcun senso fare il parlamentare. Le Camere sono state svuotate di ogni loro funzione. Non hanno più alcun potere di iniziativa legislativa e sono state messe nella condizione di fare solo il notaio del governo», ha dichiarato un giorno. Ma poi è rimasto onorevole fino a quando non è stato nominato dallo stesso parlamento nel Consiglio superiore della magistratura. Per non parlare del recordman assoluto degli assenteisti, Antonio Gaglione, che è sbottato: «Stare in Parlamento è un lavoro frustrante, una perdita di tempo e una violenza contro la persona». Dimettendosi subito dopo dal partito, il Pd. Ma in Parlamento ci è rimasto. Anche la coerenza ha un prezzo: ovviamente inferiore all’appannaggio da deputato che il Nostro continua a intascare.
Non che l’attività di governo sia particolarmente più frenetica. Con le energie tutte concentrate a parare i colpi della magistratura che indaga sui festini nelle residenze di Silvio Berlusconi, come dimostrano i recenti propositi di rimettere in cima all’agenda dell’esecutivo il processo breve o il decreto sulle intercettazioni, resta evidentemente poco carburante per altro. A giudicare dalla durata fulminea delle riunioni di Palazzo Chigi, le discussioni sulle questioni di merito dei singoli provvedimenti sono sempre più rapide. L’ultimo Consiglio dei ministri, quello sull’emergenza degli sbarchi a Lampedusa, è durato cinque minuti d’orologio: dalle 13.35 alle 13.40. Il 21 gennaio, per esaminare e approvare una decina di provvedimenti, fra cui quisquilie come il Piano sanitario nazionale e la disciplina degli sfratti, oltre a quindici nomine, ci hanno messo poco più di un’ora. La durata media delle 50 riunioni di governo dal primo gennaio 2010 a oggi è stata di 64 minuti, meno della metà di quella del precedente (e rissoso) esecutivo di centrosinistra. E questo di per sé potrebbe anche non essere un segnale negativo. Se non fosse però che mentre il dibattito interno si fa sempre più flebile, rimangono penosamente al palo progetti e riforme che rappresentavano l’ossatura del programma di governo.
Rendendo forse ancora più inutile l’esistenza a Palazzo Chigi, già di per sé sorprendente, di ben due strutture incaricate di seguire il «Programma» : quella del ministro Gianfranco Rotondi e quella del sottosegretario alla Presidenza Daniela Garnero Santanchè. Qualche caso? Il rilancio dell’energia nucleare (in clamoroso ritardo) e il piano casa (un flop gigantesco). Mentre le iniziative per dare «una scossa all’economia», termine coniato dal governo Berlusconi sette anni orsono ma finora senza risultati, sono prigioniere della carenza di risorse economiche, quando non della necessità di recuperare consensi in pericolosa discesa o della mancanza di fantasia, come sta a dimostrare il riciclaggio di vecchie promesse mai decollate. Piani per il Sud, riforme fiscali… E siamo poi sicuri che i tempi di alcune proposte, per esempio la riforma della Costituzione nella parte che riguarda l’impresa, siano compatibili con il fiato corto di questa sedicesima legislatura?
Corriere della Sera 14.02.11