Adesso il governo deve intervenire. L’ipotesi lanciata da Marchionne (e poi subito ridimensionata secondo uno schema ormai collaudato) di una possibile fusione Fiat-Chrysler, con conseguente trasferimento a Detroit della testa del gruppo, impone all’esecutivo di battere un colpo.
Palazzo Chigi non ha più alibi, sabato prossimo dovrà chiedere conto all’azienda delle sue reali intenzioni. E se, come dice, vuole continuare a governare, deve concepire ed attuare quella politica industriale rimasta finora ignota al suo vocabolario.
Le domande da porre sono molte. Ne propongo alcune. C’è l’impegno di mantenere a Torino la testa del gruppo? C’è l’impegno a mantenere in Italia ricerca, sviluppo e parte importante della manifattura? Ancora. Che ne è del progetto di “Fabbrica Italia”, sbandierato in gran pompa un anno fa e finora rimasto avvolto dalla nebbia? Quando verranno avviati gli investimenti concordati con gli accordi di Mirafiori e Pomigliano? Che tipo di relazioni sindacali il gruppo intende instaurare per creare quel consenso indispensabile a vincere la sfida sul mercato globale? I vertici del Lingotto non possono sottrarsi dal dare risposte. L’Italia non può permettersi di perdere anche la sua industria automobilistica. Se ciò avvenisse, il suo destino di potenza industriale sarebbe segnato.
Che ci siano ragioni urgenti per intervenire lo dicono non solo le intenzioni, ma anche i fatti. Per la Fiat, sul fronte del mercato, il 2011 è cominciato ancora peggio del 2010. Nel mese di gennaio, rispetto al gennaio dello scorso anno, le immatricolazioni del Lingotto sono calate del 27,7 per cento (contro il meno 20,7 del mercato in generale) e la quota di mercato è scesa dal 32 al 29,2 per cento. È un dato allarmante. Che non può essere dimenticato quando si analizzano i recenti accordi firmati dall’azienda con parte del sindacato.
L’andamento negativo delle vendite mette anzitutto a nudo un aspetto fondamentale di quegli accordi.
Insistere solo sulla competitività da costi per battere la concorrenza sul mercato globale – come prevede il “modello Marchionne” – è una scelta sbagliata e perdente. Comprimere il costo del lavoro, che incide solo per il sette per cento sul totale del valore di un’auto, può al massimo portare marginali benefici di bilancio e soddisfare gli azionisti. Ma niente di più. La sfida vera, quella del mercato, la si vince sul piano dell’innovazione, dell’efficienza produttiva e della qualità del prodotto. Sono i modelli a fare la differenza, la Volkswagen insegna. E la Fiat in questa fase è a corto di modelli vincenti.
Una conferma viene comparando alcuni altri dati riguardanti i due gruppi, come evidenziato in un recente convegno dell’Associazione “Lavoro&Welfare”. Negli stabilimenti Volkswagen l’orario di lavoro giornaliero effettivo è di 392 minuti.
In quelli del Lingotto è di 410 minuti, destinati a diventare 420 per effetto dei recenti accordi sulle pause. Una differenza di 28 minuti al giorno. Nonostante ciò il salario di un operaio tedesco si aggira attorno ai 2.600 euro netti mensili, comprensivi di tutte le maggiorazioni per i turni. Mentre quello del lavoratore italiano, che svolge analoghe mansioni arriva a 1.200/1.300 euro, che potranno aumentare anch’essi leggermente con le maggiorazioni dovute alle nuove turnistiche, ma sicuramente non raddoppiare.
Alla Volkswagen la giornata di lavoro è più breve e la busta paga è più pesante. Secondo la logica del Lingotto, ciò dovrebbe avvantaggiare la casa torinese rispetto alla concorrenza. Invece avviene l’opposto. Alla Fiat gli stabilimenti lavorano da anni a ritmo ridotto e il ricorso alla cassa integrazione è massiccio e continuo. Alla Volkswagen non si riesce a tenere il passo delle richieste del mercato a causa di un insufficiente approvvigionamento di componenti.
Perché avviene questo? Credo che siano tre le ragioni di fondo. Due le abbiamo già anticipate. La Fiat perde quote di mercato perché non ha un numero sufficiente di modelli all’altezza delle esigenze della potenziale clientela.
Oggi un kg di vettura Fiat, quanto a valore aggiunto, vale un terzo di un kg di Volkswagen. Se vuole invertire rotta, la casa torinese deve tornare indietro, ai primi tempi dell’era Marchionne, quelli della sfida basata sul prodotto e sfornare modelli medio-grandi con un più alto valore aggiunto. Il Suv previsto a Mirafiori va in questa direzione? Va però ricordato che i volumi di produzione previsti per questo modello sono alquanto risicati.
La seconda ragione riguarda il contesto in cui le case automobilistiche operano. Anche di questa abbiamo parlato. La concorrenza a livello mondiale è spietata. Ma le condizioni non sono uguali per tutti i giocatori. Negli Usa, per rimettere in sesto Ford, Chrysler e General Motors, Obama ha speso sessanta miliardi di dollari. In Germania Angela Merkel ha investito tre miliardi di euro per la Opel. In Francia Sarkozy ne ha messi sette a sostegno di Psa e Renault.
Da noi, zero. Il governo Berlusconi, esauriti gli incentivi, ha ritenuto di non dover fare più nulla, secondo la collaudata logica del lasciar fare. Niente politiche industriali, nessun sostegno all’innovazione.
Il risultato è che le nostre aziende – in questo caso la Fiat – restano penalizzate a vantaggio dei concorrenti.
C’è poi un terzo motivo, che non sempre viene analizzato con la necessaria attenzione, che pesa in negativo sulla nostra industria. Alla Volkswagen il livello di coinvolgimento dei lavoratori sulle scelte dell’azienda attraverso i comitati di sorveglianza è elevatissimo. Da noi questo coinvolgimento non esiste e solo a ipotizzarlo si grida all’attentato alla libertà di impresa. A Wolfsburg è istituzionalizzato da decenni. E funziona. Alla Fiat l’azienda pretende di imporre semplicemente le sue decisioni, quando invece sarebbe necessario il consenso. Con quel che ne consegue sul piano del conflitto.
Serve voltar pagina. Se il governo continua a rimanere assente, se si continua a perseguire come un obiettivo la divisione del sindacato e se, alla ricerca della competitività perduta, si interviene esclusivamente sulla compressione del costo del lavoro, per la Fiat il destino è segnato. Diventare una succursale della Chrysler potrebbe essere davvero l’unica, scoraggiante prospettiva.
da Europa Quotidiano 08.02.11