Lo slogan della primavera del 2008, quando Berlusconi vinse di nuovo le elezioni, era lo stesso del 2001: «meno tasse per tutti». Il comma 2 del programma presentato allora agli elettori e consultabile su Internet è assai chiaro: totale eliminazione dell´Ici sulla prima casa, introduzione del «quoziente familiare», abolizione delle tasse su successioni e donazioni e – immancabilmente – «graduale e progressiva riduzione della pressione fiscale sotto il 40% del prodotto interno lordo».
Delle quattro promesse solo l´Ici sulla prima casa è stata abolita, con costi alti (circa due miliardi ed esiti pesanti sui bilanci comunali). E il resto? Il resto dice che la pressione fiscale in Italia non diminuisce per niente, anzi stando ai recenti dati dell´Ocse, tra il 2008 e il 2009 si è già registrato un aumento di 0,2 punti toccando il tetto del 43,5 (più alto del 1997, anno della biasimata eurotassa di Prodi).
Crisi internazionale e l´effetto algebrico della caduta del Pil, si difende il governo: la pressione fiscale è un rapporto – si dice – se cala il denominatore (cioè il Pil), non può che aumentare. Tuttavia le cose non sono andate proprio così perché, come ricostruisce un dettagliato studio del Nens, è vero che il Pil è diminuito (di 3 punti nel 2008-2009), ma il gettito è diminuito di meno (ovvero 2,4 punti percentuali). Insomma il gettito fiscale si è ridotto meno di quanto si sia ridotto il Pil, ovvero abbiamo pagato tasse come se la recessione fosse stata meno dura, tasse non giustificate dal livello del Pil. Sono crollate l´Iva e le imposte sulle società, ma una tantum e imposte sostitutive hanno continuato a drenare risorse.
Basterebbe, ma c´è da aggiungere che la nostra pressione fiscale, già ai vertici dell´Europa è più alta di quanto appare a prima vista. Ad essere onesti infatti bisognerebbe togliere dalla ricchezza prodotta la quota stimata di sommerso: in questo caso la nostra pressione – calcolata dal Nens e dalla Cgia di Mestre- raggiungerebbe i più alti livelli in Europa collocandosi al 51,7 per cento.
E il federalismo? Nell´intento iniziale sindaci e governatori si sarebbero dovuti responsabilizzare: solo chi taglia le spese può ridurre le tasse ed ottenere il consenso degli elettori. Sembra una formula magica, ma i punti di forza del decreto appena bocciato dalla «Bicameralina» sono proprio le tasse sui non residenti, dunque su quelli che non votano: seconda casa e tassa di soggiorno. Così aumenta la pressione fiscale e i primi cittadini non ne subiscono le conseguenze. Nel marasma politico in cui è stata elaborato il decreto, è entrato anche il via libera alle addizionali comunali (dal 2011) e regionali (dal 2012). A regime, cioè nel 2015, secondo uno studio della Uil, la stangata per il cittadino medio se tutti i Comuni e le Regioni esercitassero l´opzione (il che date le condizioni delle finanze locali, non è da escludere) pari a 647 euro. Senza contare che l´argine alla aumento della pressione fiscale introdotto con la clausola di salvaguardia nel decreto sul federalismo regionale – nota un esperto come Salvatore Tutino del Cer – è caduto: cancellato con un colpo di penna dall´ultima versione del provvedimento. Aumento della pressione, senza rete di protezione.
Infine l´Ici: uscita dalla porta per la prima casa rischia di rientrare fragorosamente dalla finestra della seconda con una aliquota media che sale dal 6 per mille al 7,6 (e la possibilità per i Comuni di portarla al 10,6). Ne fanno le spese i proprietari ma soprattutto i piccoli imprenditori che lavorano direttamente nei locali di proprietà: per costoro nella prima versione del decreto era previsto uno sconto sull´imponibile del 50%. Ora per trovare le risorse per ridurre l´aliquota Imu, dovranno pagare sulla rendita catastale piena. Uno scherzetto che moltiplica il malcontento. E che secondo la Cgia di Mestre costerà come minimo mezzo miliardo alle imprese
La Repubblica 06.02.11