attualità, economia

"Quando l'equità migliora la vita", di Enrico D'Elia

In genere, gli indicatori statistici di benessere misurano soprattutto i fattori che contribuiscono a generarlo. E ciò porta a sopravvalutare il benessere individuale. Per lo stesso motivo, anche una maggiore sperequazione delle risorse tra gli individui tende a far sovrastimare il benessere collettivo. Mentre invece ogni aumento delle disuguaglianze riduce il benessere collettivo, a parità di Pil. E solidarietà e coesione sociale dovrebbero essere considerati come strumenti indispensabili per raggiungere livelli di benessere più elevati.

Si stanno moltiplicando i tentativi di misurare il livello di sviluppo economico e sociale attraverso indicatori complementari al Pil, soprattutto dopo la conclusione dei lavori della commissione Sen – Stiglitz – Fitoussi, e inevitabilmente l’attenzione cade su qualche approssimazione del benessere collettivo. (1) Sarebbe opportuno riesaminare alcuni risultati acquisiti quasi un secolo fa su questo argomento, quando furono anche gettate le basi dell’attuale sistema di contabilità nazionale, di cui il Pil è solo l’elemento più noto.

DIFFICILE MISURARE IL BENESSERE

Il primo punto fermo è che il benessere non può essere misurato direttamente, perché si tratta di una condizione tipicamente soggettiva, al pari della felicità, dell’amore, della bellezza di un’opera d’arte, eccetera. Per questo motivo, sono sostanzialmente falliti i vari tentativi di misurazione del benessere mediante scale ordinali (ricavate chiedendo a ciascun individuo di dare un “voto” alla propria condizione) o deducendolo dalle preferenze rivelate dagli intervistati nella scelta tra diverse combinazioni di beni e condizioni di vita. Forse, di fronte al problema della misurazione del benessere, dovremmo ispirarci alla famosa scena del film “L’attimo fuggente” in cui il professor Keating/Robin Williams invita gli studenti a strappare dal libro di testo le pagine iniziali, che pretendono di spiegare come si misura “scientificamente” il valore di un’opera letteraria in base ad alcuni discutibili parametri quantitativi.
L’unica cosa che si può fare realisticamente è considerare il benessere come il risultato di un processo produttivo e misurare i fattori che lo generano. Alcuni sono valutabili in modo relativamente semplice, come i beni materiali e i servizi (disponibili sia sotto forma di flussi, sia di stock di ricchezza accumulata), altri lo sono un po’ meno, come la cultura, lo stato di salute, le condizioni ambientali e sociali, la qualità delle relazioni sociali, la sicurezza, le prospettive future, eccetera. Una delle poche cose che sappiamo (o che crediamo di sapere) sulla funzione di produzione del benessere individuale è che i suoi input hanno un rendimento decrescente. Infatti, se moltiplichiamo per due reddito, ricchezza eccetera è improbabile che raddoppi anche il benessere individuale (e che migliori proporzionalmente la posizione relativa di ciascun individuo in una scala ordinale), semplicemente perché è impossibile mangiare il doppio, guidare due auto allo stesso tempo o vedere due film contemporaneamente. Se le cose stanno così, qualsiasi combinazione dei beni e servizi disponibili (come il Pil e la ricchezza materiale) e degli altri fattori che producono condizioni di vita migliori può fornire solo una approssimazione per eccesso del benessere pro capite (comunque misurato).

QUANTO CONTA LA SOLIDARIETÀ

Ma i problemi non finiscono qui. Se il benessere individuale non aumenta esattamente nella stessa proporzione dei rispettivi fattori produttivi, allora il benessere associato alla media di questi fattori non corrisponde al benessere medio di ciascun individuo. Sembra un gioco di parole, ma significa semplicemente che, anche dopo aver raccolto e sintetizzato al meglio tutti i possibili indicatori su ciò che migliora le condizioni di vita, ci troveremmo tra le mani una stima sistematicamente distorta del benessere. C’è di più: accettando l’ipotesi sulla particolare forma (convessa) della funzione di produzione del benessere individuale, si deve ritenere che, a parità di Pil e di altre condizioni, una concentrazione di questi fattori nelle mani di pochi individui produca un benessere complessivo inferiore a quello che si avrebbe nel caso di una distribuzione più equa. (2) Il risultato è che, come rilevato da quasi un secolo, il problema della misurazione del benessere finisce per intrecciarsi intimamente con quello della distribuzione delle risorse, ovvero con questioni etiche e politiche. In ogni caso, anche limitandoci a considerare solo il particolare trade off tra benessere ed equità generato dalla convessità delle funzioni di utilità, si rafforza il sospetto che le misure del benessere disponibili rappresentino solo una approssimazione per eccesso del benessere effettivo. E questa approssimazione peggiora drasticamente nelle società dove le sperequazioni tra gli individui sono più ampie. Quindi non deve stupire che in molti paesi l’aumento del reddito vada di pari passo con un peggioramento del grado di “felicità” dei cittadini. (3)
C’è un vecchio trucco statistico per uscire da queste sabbie mobili: quello di misurare l’ammontare dei fattori produttivi del benessere facendo riferimento a individui che si trovano in diverse posizioni nella graduatoria della disponibilità di ciascun fattore: ad esempio a metà classifica, nella zona retrocessione del quarto peggiore, oppure nell’élite rappresentato dal decimo migliore. Il vantaggio di questi indicatori è che, a differenza della semplice media, consentono almeno di misurare il benessere in condizioni standard, indipendentemente dalla distribuzione effettiva delle risorse e dalla forma della funzione di produzione del benessere. Purtroppo è molto complicato elaborare simili statistiche, mentre il Pil o la ricchezza pro capite sono stimati periodicamente da qualsiasi istituto di statistica ed esistono sempre più rilevazioni sulla qualità dell’ambiente, sulla cultura, sulle condizioni di salute, e così via.
Tuttavia, l’attuale carenza di dati statistici dovrebbe essere uno stimolo alla loro produzione, piuttosto che un freno alla elaborazione di misure di benessere sempre più accurate e all’avvio di politiche che tendano a migliorare realmente le condizioni di vita dei cittadini. Oltre tutto, si può ricavare qualche indicazione di policy anche in attesa di statistiche più appropriate. Ad esempio, qualsiasi policy maker, a prescindere dalle sue convinzioni etiche e politiche, dovrebbe essere consapevole che ogni aumento delle disuguaglianze riduce il benessere collettivo, a parità di Pil, e che, viceversa, è possibile migliorare lo standard di vita dei cittadini rendendo più equa la distribuzione delle risorse, quando non ci si può aspettare troppo dal Pil, come nei periodi di recessione o di bassa crescita. In altri termini, la solidarietà e la coesione sociale non devono essere considerati solo come valori in sé, ma piuttosto come strumenti indispensabili per raggiungere livelli di benessere più elevati. Nel frattempo, gli statistici non dovrebbero più dimenticarsi di incorporare gli indicatori di disuguaglianza nelle misure sintetiche del benessere sociale. Tutto per colpa (o per merito) di una derivata seconda negativa, e senza scomodare ideologie e convinzioni politiche.

(1) Su come andare “oltre il Pil” si rimanda al recente contributo su lavoce.info e ai lavori del gruppo di lavoro europeo. In Italia sono elaborati periodicamente il Quars (qualità regionale dello sviluppo) e il Piq (prodotto interno di qualità).
(2) La parità di condizioni è essenziale perché, in un contesto dinamico, Pil e ricchezza potrebbero aumentare con la disuguaglianza se questa premia gli individui più produttivi. Inoltre, il benessere individuale dipende anche dal confronto con le condizioni degli altri membri di una stessa collettività, ma tanto per semplificarci la vita, possiamo supporre che la maggiore soddisfazione dei privilegiati compensi esattamente l’infelicità/invidia di tutti gli altri, almeno a livello aggregato.
(3) Su questo tema si rimanda all’ampio studio su un centinaio paesi di Stevenson e Wolfers, pubblicato nel numero di primavera del 2008 dei Brookings Papers on Economic Activity.

da lavoce.info