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"L'Italia resta in coda su innovazione e accesso al credito", di Francesca Barbieri

Meglio della Germania sul terreno dell’imprenditorialità, più forti della Spagna per efficienza dell’amministrazione pubblica, a pari merito con la Gran Bretagna per livello di integrazione sul mercato unico europeo. Le buone notizie si fermano qui. L’Italia esce dal confronto europeo con poche luci e molte ombre: il nostro paese non è un terreno fertile per lo sviluppo delle piccole e medie imprese, almeno in base agli indicatori fissati dallo Small business act. Una partita che si gioca su dieci campi diversi: imprenditorialità, seconda possibilità, pensare in piccolo, amministrazione recettiva, aiuti di stato, finanza, mercato unico, innovazione, ambiente e internazionalizzazione.
Ciascuno corrispondente a un mix di princìpi, giudicati essenziali dalla Ue per creare condizioni paritarie di concorrenza tra le Pmi e per migliorare il contesto giuridico e amministrativo europeo.

L’Italia è sempre ben al di sotto della media Ue, con l’unica eccezione dell’imprenditorialità, per cui si registra un risultato di poco inferiore. Su questo fronte emerge che negli ultimi anni il tasso di natalità delle imprese è stato più basso rispetto alla media Ue, ma abbiamo avuto una maggiore propensione a fondare aziende ad alto tasso di crescita. «Significa che c’è un gruppo di imprenditori di nuova generazione – spiega Paolo Gubitta, docente di organizzazione aziendale all’università di Padova e direttore scientifico Mba imprenditori della Fondazione Cuoa – che ha saputo individuare aree di business interessanti ed è in grado anche di cogliere le opportunità del mercato».

Ma resta il nocciolo duro del gap di produttività: i 43.200 euro di valore aggiunto per addetto ci pongono sotto la soglia di Germania, Francia e Regno Unito. Solo nelle aziende con almeno 50 dipendenti si azzerano i differenziali con i nostri competitor. «Per superare il gap bisogna crescere – sottolinea Mario Benassi, docente di economia dell’innovazione alla Statale di Milano – e una strada potrebbe essere rafforzare le reti d’impresa: i dati mostrano una scarsa propensione delle Pmi italiane a cooperare, ma nella realtà sono tanti gli accordi taciti che non emergono dalle statistiche». La crescita dipende anche dal buon management. «E qui c’è un altro gap del nostro paese – osserva Gubitta -: la minore diffusione di competenze per l’innovazione». La rete tecnologica non viene usata per fare business, siamo indietro nella percentuale di Pmi che hanno redditi da nuovi prodotti (54% a fronte della media Ue del 64%) e nella quota di personale con titoli di studio elevati (14% contro 30 per cento).

I ritardi dell’Italia riguardano anche l’internazionalizzazione: è ultima in classifica, alle spalle di Ungheria e Repubblica Ceca, zavorrata dalla lentezza dei tempi dell’export, pari a 20 giorni, quasi il doppio rispetto agli 11 europei.

L’Italia è invece penultima nel ranking finanziario, in primis a causa delle difficoltà nell’accesso al credito (il 24,6% delle Pmi segnala problemi) e dei ritardi sui pagamenti (30 giorni, il doppio rispetto alla Ue). «L’attività imprenditoriale è più incerta – commenta Gubitta – visto che i costi per far rispettare i contratti sono ben più elevati rispetto agli altri paesi. Un deterrente per gli stranieri che si chiedono se vale la pena investire nel nostro paese».
Il rapporto con la pubblica amministrazione resta difficile, ma c’è un sensibile miglioramento certificato dai buoni risultati su alcuni indicatori, come ad esempio il numero di giorni necessari per avviare un’attività (10 contro 17 di media europea).

Nel complesso i risultati evidenziano come la quota di aiuti di Stato destinati alle Pmi (il 37%, quasi quattro volte la media europea) non abbia prodotto risultati tangibili. «Due le possibili spiegazioni – conclude Gubitta -: o le risorse si distribuiscono a pioggia, oppure sono assegnate senza un chiaro disegno strategico».

Il Sole 24 Ore 24.01.11