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"La linea del Pd è molto chiara: fare di tutto per salvare il Paese", di Alfredo D'Attorre

Dall’ultima Direzione sono emersi due fatti politici importanti: il primo è che il partito non è più una macchina “tritasegretari”; il secondo che la crisi viene prima di tutto. Anche delle alleanze
Punto di riferimento. Oggi il Pd è l’unico soggetto che può rivolgersi credibilmente a tutti gli italiani che non si riconoscono in questo governo. Anche a quelli che ascoltano Casini o Vendola. Bisognerà forse iniziare a riflettere sull’effetto che un ciclo politico ventennale, fondato sullo svuotamento dei partiti democratici e sulla torsione in senso plebiscitario del sistema politico ha inevitabilmente prodotto anche sul rapporto fra informazione e politica. Da anni il sistema informativo è chiamato a descrivere la vita di soggetti politici che, nella grande maggioranza dei casi, hanno assunto una configurazione post-democratica. Si può davvero immaginare che tutto ciò non incida sul modo in cui viene compresa e rappresentata la vita interna dell’unica forza politica, il Pd, che prova a invertire la rotta rispetto a questa deriva leaderistica?
Si può certo aggiungere che talora il Pd ci mette del suo per accentuare questa desuetudine e difficoltà a confrontarsi con la fatica della democrazia. Non si vogliono qui sottovalutare i difetti del dibattito interno del Pd e, d’altronde, Bersani non ha certo nascosto questo problema. Ma il modo in cui l’esito dell’ultima riunione della Direzione è stato descritto su larga parte della stampa è l’ennesimo segnale che induce a cercare una spiegazione più generale, che va molto oltre i demeriti del Pd. Lo dimostra, in particolare, il modo piuttosto impressionante in cui i due più rilevanti dati politici sanciti dalla riunione sono stati rimossi o sottovalutati.
Il primo aspetto riguarda direttamente l’assetto interno del Pd. Per un periodo abbastanza lungo, a partire dalla crisi della segreteria Veltroni, il sistema informativo ha cavalcato il cliché di un partito costitutivamente instabile, che logorava segretari, linee politiche e maggioranze interne nel giro di qualche mese. Se questo aspetto veniva considerato così rilevante, sarebbe stato normale attendersi che, dopo la Direzione, venisse sottolineato il dato in controtendenza: Bersani, eletto nell’ottobre del 2009 con circa il 54% dei voti, vede allargarsi la maggioranza che appoggia la sua linea politica a oltre l’80%, mentre la minoranza interna non presenta una piattaforma alternativa, si limita a non partecipare al voto e, in queste condizioni, non può far altro che caratterizzare l’iniziativa pubblica del Lingotto come un tentativo di sollecitare la maggioranza su alcuni punti programmatici.
Il secondo aspetto, ancora più rilevante, riguarda l’interpretazione della proposta politica esterna. L’attenzione spasmodica della quasi totalità della stampa si è concentrata sulla risposta immediata del costituendo Terzo polo o dei soggetti alla sinistra del Pd alla prospettiva di un’alleanza elettorale larga. Ma così si perde del tutto di vista il punto di fondo della proposta di Bersani, che è quello di partire non da un’astratta geometria delle alleanze, ma da un’analisi realistica e non auto-consolatoria della condizione dell’Italia e dall’ampiezza del consenso popolare che occorre per porvi mano. Se si guardasse alla sostanza delle cose, si osserverebbe che questa analisi non è contestata da nessuna delle altre forze di opposizione, sebbene, allo stato, per evidenti esigenze tattiche e calcoli di partito, nessuna di esse è in grado di trarne le conseguenze politiche con la stessa coerenza con cui lo fa il Pd. Ma, proprio per questo, oggi il Pd è in condizione di essere il l’unico soggetto che può rivolgersi credibilmente a tutti gli italiani che non si riconoscono nell’attuale governo. Anche a quegli italiani, per esempio, che ascoltano le analisi allarmate di Casini e Vendola sulla gravità della crisi democratica e sociale italiana e iniziano a non capire come ci si possa poi sottrarre rispetto alla proposta del Pd.
Non bisogna però essere pessimisti: alla fine, come si sarebbe detto una volta, i fatti hanno la testa dura. Quando si arriverà al dunque, la solidità di una linea politica fondata sull’interesse del Paese metterà gli interlocutori politici di fronte alle proprie responsabilità e indurrà finalmente anche buona parte della stampa a convincersi che, per il Pd, aver compreso il punto di fondo della crisi italiana è stato più importante che inseguire il tatticismo quotidiano delle interviste.

L’Unità 20.01.11