Quest’anno la Pasqua di Resurrezione è caduta in forte anticipo, subito dopo la Befana. Ma a risorgere non è un uomo, bensì un istituto di democrazia diretta: il referendum. Ricordate? Ne avevamo celebrato i funerali, quando la consultazione sul porcellum promossa da Guzzetta e Segni toccò il picco negativo d’affluenza al voto: 23 per ento. Succedeva nel giugno 2009, e a quel punto nessuno avrebbe più scommesso un euro sul futuro dei referendum. Anche perché dal ’97 in poi, sotto l’astro della seconda Repubblica, ne erano via via falliti 24, sempre per la medesima ragione: niente quorum. Eppure proprio un referendum (nel 1946) aveva battezzato la prima Repubblica, e ne aveva poi scandito l’esistenza, recandoci in dono divorzio e aborto negli anni 70, lo stop al nucleare durante gli 80, un nuovo sistema elettorale all’alba dei 90. Insomma un passato glorioso, ma ormai tutto consumato, come una candela.
E invece no, talvolta il passato può tornare. Nei giorni scorsi la Consulta ha acceso il verde del semaforo su 4 referendum: quello sul legittimo impedimento promosso da Italia dei valori, quello contro la costruzione di centrali nucleari, infine i due referendum sull’acqua, che da soli hanno raccolto un milione e 400mila firme. Negli stessi giorni il 96% dei dipendenti Fiat di Mirafiori ha votato il referendum sul futuro dello stabilimento, superando perfino l’affluenza record di Pomigliano d’Arco (95%). Mentre altri referendum s’allestiscono in questo o in quel comune: per esempio a Belluno le istituzioni hanno deciso di consultare i cittadini sul passaggio dal Veneto al Trentino.
Fin qui l’onda referendaria ci è scivolata addosso senza bagnarci più di tanto, senza destare la nostra attenzione collettiva. Ci incuriosiscono semmai le escort del presidente del Consiglio, le sue baruffe con il presidente della Camera, l’avvento di terzi e quarti poli. O almeno è questo lo specchio del paese che riluce da tv e carta stampata. Ma è uno specchio deformante, ed è un errore infiggervi lo sguardo. Perché quell’onda solleva una domanda di democrazia, e segnala un sentimento d’affezione alla democrazia italiana. Di questi tempi, non è affatto un evento secondario. Alle ultime regionali un terzo degli elettori è rimasto a casa, mentre il partito del non voto (sommando astenuti, schede bianche e nulle) ha raggiunto il 40 per cento. Quando si voterà di nuovo, questo (non) risultato potrebbe diventare anche più rotondo, come ci raccontano tutti i sondaggi dei quali disponiamo. Insomma c’è un divorzio fra popolo e Palazzo, ma a quanto pare non abbiamo ancora divorziato dallo stato. Altrimenti non c’interesseremmo neppure ai referendum, non ne appoggeremmo in massa la
Tuttavia non c’è contraddizione tra il rifiuto della democrazia rappresentativa e il ritorno di fiamma per la democrazia diretta. Questo doppio atteggiamento esprime al fondo un’unica matrice, un altolà alla degenerazione del sistema dei partiti. Perché sono i partiti che hanno svuotato il Parlamento, riempiendolo di soldatini di piombo nominati dai signori di partito. E perché sempre i partiti hanno svuotato il referendum: prima tenendolo per 22 anni in quarantena (la legge istitutiva è del 1970), poi frodandone a più riprese i risultati (come avvenne nel 1993, dopo il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti), infine organizzando l’astensione per far saltare il quorum.
Tutto sommato, in questi giorni stiamo soltanto preparando una rivincita, ci riprendiamo lo spazio che era nostro, di noi elettori con una museruola sulla bocca. Sarà per questo che i partiti reagiscono invocando l’abolizione del referendum, come ha fatto Mario Valducci, presidente della commissione Trasporti della Camera. Però attenzione, perché i partiti hanno pur sempre in tasca una pistola carica: lo scioglimento anticipato delle assemblee legislative, che rimanderebbe i referendum alle calende greche. D’altronde questa pistola ha già fatto fuoco nel 1972, nel 1976, nel 1987, nel 1994. Sta a vedere che sparerà di nuovo.
Il Sole 24 Ore 18.01.11