Dal Cairo ad Algeri, da Amman a Tripoli c’è chi teme e chi auspica la rivoluzione dei gelsomini Gli analisti: una grande lezione per i regimi. C’è chi parla di una «Danzica araba». Chi evoca una nuova «Primavera di libertà». C’è chi lo spera. E chi lo teme: l’effetto domino della rivolta tunisina. Da Algeri al Cairo, da Tripoli ad Amman, da Beirut a Rabat… Una dialettica che emerge dalle analisi che occupano le prime pagine dei più autorevoli quotidiani arabi e internazionali. «Ben Ali e il suo clan sono stati cacciati. La formidabile rivoluzione democratica del popolo tunisino ha spazzato via la sanguinaria dittatura di Ben Ali. I tunisini si sono liberati della paura, hanno affrontato a mani nude le forze della repressione».
Esordisce così un editoriale del giornale algerino El Watan, uno dei principali quotidiani del Paese maghrebino, noto per dare ampio spazio alle voci dell’opposizione nella regione. «Ben Ali è la storia di un potere assoluto in Tunisia da 23 anni. Ma è anche una storia che si può riscontrare in quasi tutti i Paesi arabi. I tunisini hanno appena dato una lezione a tutti coloro che pensano che non siamo pronti alla democrazia e che lo status quo è una necessità assoluta per impedire agli islamici di accedere al potere. Una visione semplicista e accomodante», prosegue ancora l’editoriale prima di porsi gli interrogativi d’obbligo: «Che accadrà in Algeria? Accentueranno la repressione o cambieranno direzione definitivamente
ascoltando la voce della ragione e facendo imboccare al Paese la via della democrazia e delle riforme politiche?». «Gli algerini si ribellano a intervalli regolari. E sarà sempre così se i dirigenti non prenderanno le misure di quello che, in profondità, agita la nostra società. La rivolta popolare dei tunisini è adesso diventata il nuovo faro del mondo arabo», conclude il giornale.
Da Algeri a Beirut. Il quotidiano libanese An Nahar ha pubblicato ieri un editoriale nel quale sostiene che «l’eco» di questa rivoluzione senza precedenti possa risuonare «in più di un Paese della regione». Secondo Bilal Saab, ricercatore all’Università del Maryland, «la politica in Medio Oriente spesso si evolve velocemente e questo per la porosità dei confini e la condivisione delle culture». In ogni caso, è difficile prevedere al momento gli effetti della protesta tunisina nel breve periodo». «Il messaggio è molto forte. Ma è difficile sapere se quello che è successo in Tunisia possa ripetersi da qualche altra parte, come in Algeria o in Egitto», dice Amr al-Chobaki dell’Istituto di studi politici e strategici al-Ahram del Cairo. La capacità di sopravvivenza dei regimi arabi autoritari non va sottostimata, aggiunge l’analista. La Tunisia è uno Stato che non ha mai lasciato «una porta aperta per la società civile o per l’opposizione», spiega Chobaki, mentre in Egitto, ad esempio, il regime ha lasciato piccole valvole di sfogo «per permettere al popolo di rallentare le tensioni e per evitare l’esplosione (di un conflitto, ndr) sociale». È «la prima rivolta popolare che ha portato alla rimozione di un presidente nel mondo arabo», spiega Amr Hamzawy del Carnegie Middle East Centre di Beirut. «Potrebbe essere fonte di ispirazione per il resto del mondo arabo», ha aggiunto, in quanto «alcuni ingredienti (all’origine della rivolta, ndr) in Tunisia sono rilevanti ovunque», dal Marocco all’Algeria, dall’Egitto alla Giordania. Tra questi, l’alto tasso di disoccupazione, l’uso violento della forza da parte della polizia e la violazione dei diritti umani. L’esempio tunisino ha dimostrato come tutto questo possa essere cambiato dal popolo. Non è necessaria un’invasione come in Iraq. È una grande lezione per i regimi autoritari nella regione», rimarca Hamzawy.
Considerazioni che vanno oltre il mondo arabo. «La rivolta in Tunisia ha elettrizzato la regione», scrive il New York Times, e «i più entusiasti sostengono che si tratta della Danzica araba», facendo un parallelo con la rivolta avviata nel 1980 da Solidarnosc nella città polacca, che portò poi al crollo del sistema sovietico nell’Europa Orientale. «Ciò appare prematuro osserva il NYT anche perché non sono ancora chiari i contorni del nuovo governo emerso in Tunisia e perché la Tunisia è alla periferia del mondo arabo». Tuttavia, prosegue il quotidiano, «la proteste in Tunisia sono viste come una rivolta popolare che va al di là della religione e dell’ideologia», che offre «un nuovo modello di dissenso in una regione dove l’opposizione è stata monopolizzata dagli estremisti islamici». Una riflessione che si ritrova anche sulle pagine di Le Monde, in particolare in una intervista alla politologa e militante della Lega tunisina per i diritti umani, Larbi Chouikha. I fatti dell’altro ieri dimostrano che “le rivoluzioni di velluto si possono fare in un Paese arabo” afferma la studiosa. “Noi non siamo un popolo che sprofonda nell’obbedienza, e ciò potrebbe avere un effetto domino nella regione». Anche il quotidiano britannico The Independent apre con un’analisi in cui si sottolinea che i problemi sociali che hanno spinto i tunisini a ribellarsi contro il regime di Ben Ali sono comuni ad altri paesi arabi. “Si tratta di una vera rivoluzione oppure i membri di un’altra elite prenderanno il posto di del presidente Ben Ali?» si chiede The Independent, osservando che si tratta di una “domanda cruciale per il resto del mondo arabo, dove altri regimi corrotti di polizia si trovano di fronte agli stessi problemi sociali, politici ed economici della Tunisia», e il «parallelo più immediato è l’Egitto, dove il regime sclerotico del presidente Hosni Mubarak è aggrappato al potere».
L’Unità 16.01.11
“Un´onda d´urto per le folle può svegliare i paesi arabi.
Un incidente non programmato può scatenare una rivolta e poi una rivoluzione”, di Tahar Ben Jelloun
Il fatto che Ben Ali sia partito lasciando il Paese in una situazione di confusione e di panico sta a dimostrare fino a che punto l´uomo non meritasse di essere un capo di Stato. Giunto al potere con un golpe (approfittando della malattia di Bourghiba) nel 1987, ha governato la Tunisia con metodi autoritari. Eppure questo Stato di polizia, dove la tortura era all´ordine del giorno e ogni espressione dell´opposizione veniva repressa, ha beneficiato del sostegno della Francia e dell´Italia, che lo ritenevano il miglior garante contro l´integralismo religioso.
Ma al di là di questa constatazione, gli eventi degli ultimi giorni in Tunisia hanno una portata storica, non solo per i tunisini ma per tutto il mondo arabo. È un´onda d´urto che rischia di risvegliare le folle di Algeri, del Cairo, di Damasco e di molti altri Paesi con regimi autoritari e impopolari. Non dimentichiamo che in contemporanea con le manifestazioni in Tunisia, anche in Algeria la folla ha invaso le piazze. Certo, i due regimi sono assai diversi tra loro, non fosse altro che per le importanti risorse (gas e petrolio) di cui l´Algeria è ricca. Ma c´è una realtà che accomuna quei due popoli: sono stanchi, non ne possono più dei regimi al potere. Ecco dove conduce la dittatura. Presto o tardi la rivolta popolare esplode.
In Tunisia tutto è incominciato con le umiliazioni subite da un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, che si è immolato dandosi fuoco. A forza di vedersi disprezzato, sfruttato, derubato e umiliato, il popolo si ribella. Tanti giovani che hanno studiato e ottenuto un diploma o una laurea non trovano lavoro. La disoccupazione colpisce un terzo della popolazione attiva. E intanto Ben Ali e il suo parentado hanno Hanno fatto man bassa del Paese creando un partito unico, che serviva a fornire opportunità d´affari a diverse famiglie.
Sappiamo che in questa rivoluzione l´esercito ha avuto un ruolo positivo, rifiutando di reprimere i manifestanti: questo il motivo della destituzione del generale Amar. Gli islamisti, ai quali veniva negata la possibilità di esprimersi, non hanno approfittato della sollevazione per farsi vivi. L´esercito si è riversato nelle piazze dopo la fuga di Ben Ali e conta di poter giocare un ruolo in futuro.
L´esempio tunisino farà riflettere l´Algeria e l´Egitto. Entrambi i Paesi hanno regimi impopolari e condizioni di ingiustizia simili. La differenza sta nel fatto che in Algeria, fin dal 1962 il potere è nelle mani di un esercito che si arricchisce grazie ai proventi del gas e del petrolio; mentre l´Egitto è un Paese povero, sovrappopolato e minato dall´integralismo religioso. Qui è nato, nel 1930, il primo movimento islamista, quello dei Fratelli musulmani. Oggi migliaia di islamisti marciscono nelle carceri egiziane. Recentemente un avvocato, Ayman Nour, ha osato presentarsi alle elezioni presidenziali sfidando il presidente Mubarak. È stato prima estromesso dalla sua attività professionale, poi arrestato con l´accusa di aver falsificato la lista delle persone che avevano firmato per la sua candidatura e condannato a tre anni di carcere.
A volte è un incidente non programmato a scatenare una rivolta, e poi una rivoluzione. È quello che è accaduto in Tunisia, a Sidi Bouzid, pochi giorni prima di Capodanno. Nessuno pensava che da qui si sarebbe arrivati alla caduta del dittatore Ben Ali.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
La Repubblica 16.01.11