attualità, pari opportunità | diritti, politica italiana

"La retorica del 5 per mille", di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra

Il 5 per mille mostra sempre più la corda. Non solo è costantemente a rischio di sopravvivenza. Ma si sta rivelando anche uno strumento inadatto a sostenere il volontariato e gli enti non profit. Comporta costi rilevanti di pubblicità per i privati e di gestione per l’amministrazione pubblica. Finisce col finanziare a pioggia, e con importi modesti, enti con le finalità più disparate. La sua efficacia andrebbe confrontata con quella delle agevolazioni fiscali previste per le stesse finalità. Enti locali e finanziamenti virtuosi al terzo settore.

La rivoluzione tremontiana per finanziare il volontariato e gli enti non profit, il 5 per mille, che nelle parole del suo fondatore doveva permettere di trasferire potere dallo Stato alla società in un’ottica di “sussidiarietà fiscale”, mostra sempre più la corda. Oltre a essere costantemente a rischio di sopravvivenza, si sta rivelando uno strumento inadatto e discutibile a svolgere le funzioni per cui è stato introdotto.

FINANZIAMENTO VERO E PARTITE DI GIRO

Anche quest’anno, come ogni anno da quando è stato introdotto in via sperimentale con la legge Finanziaria per il 2006, la sopravvivenza del 5 per mille è sembrata in forse. Decurtato dai 400 milioni del 2010 a soli 100 milioni con la legge di stabilità, è nuovamente risorto nel decreto legge cosiddetto “Milleproroghe” (Dl 225/2010).
Apparentemente il comma 1 dell’articolo 2 reintegra la somma a 400 milioni (dice il Milleproroghe: “(…) le risorse complessive destinate alla liquidazione della quota del 5 per mille nell’anno 2011 sono quantificate nell’importo di euro 400.000.000”). Ma l’onere aggiuntivo sul bilancio pubblico nel 2011 è 200 milioni e non 300 come sembrerebbe logico (“al maggiore onere derivante dai precedenti periodi, pari a 200 milioni di euro per l’anno 2011”). Quasi per magia 100 milioni scompaiono: qui il Milleproroghe si fa più criptico, con buona pace dei processi di semplificazione normativa (“a valere su tale importo, una quota pari a 100 milioni di euro è destinata ad interventi in tema di sclerosi amiotrofica per ricerca e assistenza domiciliare dei malati ai sensi dell’articolo 1, comma 1264, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Alla determinazione delle risorse nell’ammontare indicato al precedente periodo, concorrono le risorse di cui alle voci indicate nell’elenco 1 previsto all’articolo 1, comma 40, della legge 13 dicembre 2010, n. 220, stanziate per le stesse finalità”).
In soldoni: la legge di stabilità (legge 220/2010) aveva già destinato 100 milioni a interventi a sostegno dei malati di Sla, a titolo di fondo per i non autosufficienti. Ora questi 100 milioni vengono utilizzati per garantire che una quota corrispondente del 5 per mille sia finalizzata a interventi in questo campo. In sostanza: con soli 100 milioni si può vantare di non avere cancellato il fondo per i non autosufficienti (introdotto dalla legge 296/2006), si reintegra il 5 per mille e si finanzia un po’ di sostegno ai malati di Sla. A ben vedere, invece, rispetto al 2010 il fondo per la non autosufficienza si è ridotto di 300 milioni ed è limitato a interventi per i malati di Sla e il 5 per mille è di fatto tagliato (sempre rispetto al 2010) di 100 milioni.
Non è poi chiaro cosa succederà adesso al finanziamento alla ricerca e assistenza in tema di Sla. Arriverà attraverso il meccanismo del 5 per mille, e cioè fra due anni? Verrà ripartito in proporzione alle scelte eventualmente espresse dai cittadini che vogliano destinare il proprio 5 per mille a questa finalità? Oppure, sarà ripartito indipendentemente dalle scelte dei contribuenti, violando così il principio base di sussidiarietà del 5 per mille, per ben un quarto delle sue risorse totali?

IL 5 PER MILLE: UN GIOCO PER POCHI

Al di là delle vicissitudini relative al suo finanziamento, il meccanismo del 5 per mille, a cinque anni dalla sua introduzione, richiede una riflessione critica.
Con questo meccanismo i contribuenti possono autonomamente devolvere il 5 per mille della propria Irpef a uno dei settori o dei beneficiari previsti, in appositi elenchi, nel campo della ricerca e del non profit. Il 5 per mille non è quindi un gioco per tutti. Con riferimento agli ultimi dati disponibili (dichiarazioni 2008) ben 10,7 milioni di contribuenti sono a priori esclusi, perché hanno un’imposta netta pari a zero. Inoltre, 24,8 milioni di contribuenti (il 60 per cento del totale) possono devolvere, in media, meno di 13 euro a testa.
Non meraviglia quindi che abbia indicato la propria scelta solo il 35,2 per cento dei contribuenti. Non partecipano, pur essendo ammessi, il 99 per cento dei soggetti che non sono tenuti alla presentazione della dichiarazione dei redditi (più di un terzo dei contribuenti).
La partecipazione dei soggetti che presentano il 730 e si rivolgono quindi a un Caf è molto più alta (63,9 per cento) rispetto a quella dei soggetti che compilano il modello Unico (37,4 per cento). I Caf sembrano quindi attivi nell’informare i contribuenti e aiutarli a esprimere la propria scelta. Peccato che i Caf siano anche spesso collegati a soggetti che sono potenziali beneficiari del 5 per mille.
In alternativa, ai contribuenti arriva l’informazione degli enti che possono spendere di più in pubblicità e i finanziamenti si concentrano non a caso su quelli più noti. Gli elenchi dei potenziali beneficiari sono disponibili sul sito dell’Agenzia delle entrate, ma si tratta di una miriade di enti (ben 77.015 nel 2008) di cui viene fornito solo il nome e il codice fiscale. Èallora presumibile che agiscano meccanismi di appartenenza: gli associati finanziano le proprie associazioni, i dipendenti il proprio datore di lavoro, i volontari la propria Onlus. Nel 2008, più di diecimila enti risultano scelti da meno di dieci contribuenti; 2.543 hanno addirittura ricevuto il 5 per mille di un solo contribuente.
Le perplessità sul meccanismo si accentuano se si osserva la ripartizione delle risorse. Si assiste infatti a una impressionante concentrazione del beneficio su un numero molto limitato di soggetti. Il 13 per cento dell’importo totale (54,4 milioni su 415,6 nel 2008) va a un solo ente: l’Airc. Più di un quarto, il 25,7 per cento va a soli otto enti che rappresentano lo 0,01 per cento dei potenziali beneficiari. (1) Dal lato opposto, non hanno ottenuto neanche un euro 34.500 associazioni sportive e 2.537 altri soggetti; mentre sono rispettivamente 2.652 e 2.370 quelli che hanno ricevuto meno di 100 euro.

UNA VALUTAZIONE CRITICA

Sarebbe ora di interrogarsi sul beneficio sociale di un meccanismo che comporta costi rilevanti di pubblicità per i privati e costi di gestione per l’amministrazione pubblica (compilazione degli elenchi, verifica dei requisiti, ripartizione dei fondi) e che in buona parte finisce col finanziare a pioggia, con importi modesti, enti con le finalità più disparate. (2)
L’efficacia del meccanismo andrebbe poi confrontata con quella delle agevolazioni fiscali già previste dal nostro ordinamento per le stesse finalità, nella forma di deduzioni e detrazioni. In questo caso i cittadini decidono liberamente di versare contributi a organizzazioni che considerano meritevoli, ma a differenza del 5 per mille ne sostengono in parte l’onere. La compartecipazione responsabilizza il cittadino e consente agli enti beneficiari di ottenere di più di quanto lo Stato perda di gettito.
Dal canto loro, le Onlus e le organizzazioni del volontariato dovrebbero preoccuparsi, più che della riduzione del finanziamento al 5 per mille, dei pesanti tagli ai fondi sociali riservati agli enti decentrati. Il finanziamento delle politiche sociali gestite dagli enti locali è infatti la fonte principale di un finanziamento virtuoso al terzo settore, nella logica della costruzione della rete pubblica e privata di interventi sociali auspicata dalla legge quadro sull’assistenza (legge 328 del 2000).

(1) Lo 0,02 per cento se si escludono le associazioni sportive che sono risultate in larga parte escluse in quanto non rispondenti alle finalità sociali richieste dalla normativa.
(2) Si veda ad esempio questa inchiesta dell’Espresso.