Gli autobus si fermano davanti alla porta 2 di Mirafiori, gli operai scendono e si avviano velocemente verso i cancelli per iniziare il secondo turno. Pochi hanno voglia di parlare. Ci sono televisioni, giornalisti, delegati e sindacalisti. «Ci siete tutti, mancano solo gli osservatori dell’Onu, poi tra qualche giorno non ci sarà più nessuno e saremo di nuovi soli…», osserva amaramente Antonio, quarantenne, uno dei più giovani qui dentro. Sul piazzale i sostenitori del sì e il comitato del no si scambiano qualche insulto mentre distribuiscono i volantini. Volano spintoni, accuse, poi torna la calma. Sono momenti difficili, anche drammatici. Di lato, quasi a cercare rifugio, un vecchio operaio si asciuga le lacrime con un fazzoletto a quadrotti. Ha il volto scavato, un berrettino calcato sulla testa e la tristezza infinita di una umanità sofferente che ne ha viste di tutti i colori in fabbrica e ancora non ha finito di subire ricatti, offese dal potente di turno. «Mi chiamo Agostino Antonio, sono pensionato, ho 73 anni. Sono venuto per solidarietà con gli operai, ogni tanto torno qui a incontrare i lavoratori, a scambiare due parole. Ma ora li vedo litigare e mi viene una tristezza… che brutto vedere i sindacati divisi». Attorno si forma un capannello di lavoratori, gli operatori tv e i fotografi si fiondano a riprendere Agostino. «Ho passato 30 anni in Fiat: 17 a Rivalta e 13 alle Carrozzerie di Mirafiori. Sono della Calabria, vivo vicino a Torino da 42 anni. Porto sempre con me la tessera della Fiom. Ma oggi non so cosa farei: se voto no per difendere quello che ho conquistato in tanti anni di lotte Marchionne dice che se ne va, capisco chi vota sì perché l’operaio deve mantenere la famiglia, deve mangiare, ci sono i figli». Mirafiori non è più la cattedrale dei metalmeccanici, oggi è solo la tappa di una processione dolorosa della sopravvivenza operaia. C’è stata Pomigliano, oggi tocca a Torino, poi sarà la volta di Cassino, Melfi, Avellino. Termini Imerese no, perché Sergio Marchionne ha già deciso di chiuderla. Mirafiori è il paradigma più chiaro di cosa è diventato questo paese, dove l’arroganza di un manager da 200 milioni di euro di stock options viene scambiata per modernità, dove si ricattano migliaia di famiglie offrendo un pezzo di pane in cambio di diritti, regole e contratti. E tutti quanti, probabilmente anche quelli che spingono per bocciare le proposte di Marchionne, sperano che vinca il sì, almeno per alimentare un simulacro di speranza nel futuro. Lo scandalo di Mirafiori, a ben vedere, non sta nella divisione del sindacato, nell’ultimatum di Marchionne, nemmeno nel silenzio complice e inetto degli eredi Agnelli, nella subalternità culturale, per non dire di peggio, di certa politica agli interessi dell’impresa. No, non è questo. La vera «porcata » di Mirafiori sta nel fatto che la grande impresa, il governo, i partiti, i sindacati, le istituzioni scaricano su 5400 lavoratori la responsabilità di decidere su qualche cosa che va ben oltre il confine della loro fabbrica, il loro posto, il loro salario. Si gioca il futuro delle relazioni tra capitale e lavoro, tra impresa e dipendenti, si altera il tessuto faticosamente costruito e difeso per tenere assieme, democraticamente, le ragioni dell’impresa accanto alle aspirazioni dei lavoratori. Eil motore di questa «modernizzazione » non è il parlamento, non è il governo, non è Confindustria. No, tutti aspettano che siano gli operai di Mirafiori, dopo quelli di Pomigliano, a decidere la svolta, a togliere le castagne dal fuoco, attraverso un referendum imposto in fretta e furia da Marchionne che, come ha ben scritto ieri Stefano Rodotà su Repubblica, prevede un solo esito:il successo del sì altrimenti il manager dei due mondi se ne va. La realtà di Mirafiori è questa, non si scappa. «I lavoratori delle Carrozzerie hanno fatto in media 22 settimane di cassa integrazione nel 2010, gli operai prendono 850-900 euro al mese e 1200-1300 quando lavorano sempre,con i turni. Se vince il sì passeremo tutto il 2011 in cassa integrazione in attesa che l’anno prossimo partano le nuove produzioni promesse. Ma in un anno, con gli operai a casa, può succedere di tutto», osserva Nina Leone, delegata Fiom, 47 anni, pugliese, «assunta in Fiat nel 1988 perché speravo di avere un lavoro sicuro». Poco distante un’altra donna forte e decisa, con la giacca verde della Fiat, distribuisce i volantini del “sì”: «L’accordo è duro ma dobbiamo approvarlo, se vince il no mi metto davanti alla Fiom, mi devono dare da mangiare». La dichiarazione più bella e coraggiosa la fa un operaio davanti alla tv: «Questo accordo mi fa schifo, ma ho un figlio e devo pagare il mutuo cosa posso fare? Voto sì, e poi vedremo». Gli operai inizieranno a votare domani sera e finiranno il pomeriggio di venerdì. Poi i risultati. C’è un problema di trasparenza del voto e dello scrutinio. Il comitato del no creato da 118 tra lavoratori e iscritti alla Fiom vorrebbe essere presente allo spoglio delle schede. Anche su questo punto non mancano le tensioni e addirittura sono circolate voci di un possibile rinvio del referendum. Come mai? La commissione elettorale delle Rsu si è riunita ieri per decidere le modalità del voto. Fim e Ugl, a sorpresa, hanno proposto un rinvio, mentre Fismic e Uilm hanno difeso le date del 13 e 14 gennaio. La Fiom si è astenuta. Anche questa ipotesi di rinvio per motivi “tecnici” alimenta dubbi e incertezza non solo sul testo del documento, ma anche sulle condizioni del referendum. Inizialmente i sindacati, compresa la Fiom, avevano concordato il voto per il 19 gennaio, così ci sarebbe stata una settimana di tempo per fare le assemblee e spiegare le ragioni del sì e del no, considerato che solo oggi rientreranno in fabbrica tutti i lavoratori dopo un periodo di cassa integrazione iniziato il 23 dicembre. Ma è stata la Fiat a stringere i tempi, a richiamare i sindacati firmatari per fare presto. Marchionne, con i suoi ultimatum, prima in Borsa, poi a Detroit sta facendo la campagna elettorale. Tornerà questa sera dall’America per seguire il voto e c’è da attendersi qualche altro show. Perché anche Marchionne rischia: se il voto non sarà un trionfo per la Fiat, se il successo sarà modesto come a Pomigliano per l’amministratore delegato potrebbero aprirsi delle difficoltà con gli azionisti. Previsioni? Il segretario locale della Uilm Peverati si è presentato in pubblico con una felpa Fiat annunciando la vittoria del sì con l’80%. Quelli della Cisl, molto più saggi, hanno detto che basta il 51%. Giorgio Airaudo, vecchia volpe della Fiom, è reduce da due giorni a Roma, ha visto ministri, segretari di partito ed è stato pure a Porta a Porta. Dice:«In condizioni normali l’ accordo sarebbe bocciato alla grande, ma qui c’è il ricatto. I partiti e gli industriali sono terrorizzati dalla vittoria del no, non sanno cosa fare. L’altra sera la Marcegaglia mi ha preso per il braccio e mi ha detto: fate qualcosa, dite sì, Marchionne non mi dà retta». Nella notte le statue nelle piazze di Torino sono state vestite con magliette di protesta, rispettate i lavoratori, la Fiat resti a Torino. Domani è un altro giorno.
L’Unità 12.01.11