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Conversando con Clint Eastwood «No, non c’è religione quando incontriamo la morte», di Alberto Crespi

L’appuntamento è alle 21 di giovedì sera. Davanti a un telefono negli studi di RadioRai, la storica sede di via Asiago. Chicca Ungaro, della Warner Italia, ha fornito alla casa madre di Burbank il numero della messa in onda e ci ha tranquillizzati: alle 21, Clint chiamerà. Intorno alle 20.30, cominciamo ad aggirarci intorno a quel telefono. C’è tutta Hollywood Party – perché l’intervista con Clint Eastwood, in finta diretta da Los Angeles, è per la trasmissione di cinema di Radio3 della quale chi scrive è uno dei conduttori. C’è Giovanni Piperno, il bravo documentarista che in questa settimana ha esordito come conduttore; c’è Efisio Mulas in arte Claudio De Pasqualis, personaggio leggendario della trasmissione. Siamo tutti lì di fronte a un telefono che forse suonerà. Il pessimismo congenito ci mette in fibrillazione. E se Clint cambia idea? E se casca la linea? E se chiama ma risponde a monosillabi? Se ci dice «make my day», come l’ispettore Callaghan, e poi spara un colpo di 44 Magnum? Finché quel telefono non suona, non ci crediamo.
Alle 20.59 il telefono suona. È una giovane assistente di Clint. Ci chiede se parla effettivamente con la Rai. Ovviamente! «Clint sarà all’apparecchio tra 5 minuti, restate in linea». Passano 4 minuti e mezzo ed ecco quella voce, inconfondibile: «Hallo, Clint Eastwood speaking». L’intervista si fa: su Radio3 è andata in onda ieri sera, e siamo felici di riproporvela, ringraziando di nuovo Chicca Ungaro della Warner, Francesca Levi e tutta la redazione di Hollywood Party.
Prima, una premessa: capito come funziona, con Hollywood? Nessuno ti darà mai un numero diretto di Clint Eastwood, e quindi nessuno potrà mai chiamare Clint a casa sua per chiedergli, che so?, cosa pensa di Berlusconi o dei cinepanettoni o delle mutande di Belen Rodriguez. È Clint che chiama te, con precisione svizzera. Ma quando ti chiama, è tuo. A totale, partecipe, gentilissima disposizione. E se l’ufficio stampa ti dice che avrai 15 minuti di tempo, può capitare (giovedì sera è capitato) che Clint si diverta, che ascoltare la lingua italiana lo faccia sentire giovane («Negli anni ’60, quando lavoravo con Sergio Leone, l’avevo un po’ imparata. Mi fa piacere rinfrescarla»), che le domande non lo infastidiscano e che quindi stia al telefono più di mezz’ora. Quello che segue è il resoconto, solo per voi, di quella mezz’ora. Prima di tutto, mister Eastwood, grazie di cuore per i capolavori che ci sta regalando da anni. «Grazie a voi. Mi fa piacere sentire queste parole da un italiano, perché l’Italia ha un posto speciale nel mio cuore. Non dimenticherò mai gli anni stupendi che ho passato nel vostro paese lavorando con Leone: da allora, mi sono sempre sentito un po’ italiano». Cosa ha pensato quando ha letto il copione di «Hereafter»? Ha deciso subito di fare il film, o ha esitato di fronte a un tema così alto? Parlare della vita dopo la morte, al cinema, non è cosa di tutti i giorni.
«Proprio per questo non ho esitato a fare il film. Mi sembrava affrontasse in modo provocatorio e stimolante un tema importante, ponendo molte domande e senza dare risposte facili. Era un copione unico… e internazionale, perché la curiosità su ciò che accade dopo la morte appartiene a tutti gli esseri umani. Ed è curioso scoprire che i racconti di coloro che hanno avuto quel tipo di esperienze, come i sopravvissuti dal coma, sono tutti molto simili».
Lo sceneggiatore, Peter Morgan, si è documentato ispirandosi a storie vere? «Non credo. È partito dall’idea delle tre storie parallele. Poi la morte è divenuta un collante, un modo drammaturgicamente forte per far sì che le storie si incrocino alla fine».
È un film assolutamente laico. Si parla di aldilà, ma senza riferirsi a nessuna religione. «Il copione era così, per questo mi è piaciuto. Non è schierato. Penso che basare la storia su una delle religioni istituzionali avrebbe distratto dal tema vero, che è poi l’impatto della morte sulla quotidianità di queste persone. Inoltre, schierarsi con una religione avrebbe reso il film troppo categorico. Se uno crede in un dio particolare, sa già quel che è giusto e quel che è sbagliato».
Sa che Radio Vaticana ha recensito il film in modo molto positivo? «No. Ma mi fa piacere saperlo. Sono contento quando qualcuno, fosse anche il Papa, apprezza il mio lavoro».
Hanno detto che il film «insegna ad affrontare la morte con forza e quiete». Belle parole, no? «Sì, non male. Forza e quiete… sì, è bello a dirsi, ma è molto difficile quando arriva il momento. Certo se uno ha una fede forte, tutto è più facile. Chi è agnostico, ha più difficoltà». Dopo l’aldilà, lei torna ad occuparsi di storia americana. A che punto è il progetto del film su Edgar J. Hoover, il fondatore dell’Fbi? «Cominciamo le riprese il mese prossimo, con Leonardo DiCaprio nel ruolo di Hoover. È un bellissimo copione scritto da un giovane molto in gamba, Dustin Lance Black (è lo sceneggiatore di Milk, ndr). Hoover è stato un personaggio importante della nostra storia, quindi cercheremo di ritrarlo in modo onesto. Al tempo stesso è stato molto controverso, sia per la sua attività politica che per la sua vita privata, e il film si occuperà di entrambi questi aspetti».
Sui suoi rapporti con Sergio Leone si sa tutto. Che ricordo ha di Vittorio De Sica, l’altro grande italiano con cui ha lavorato? «Ho girato con lui Le streghe, un film a episodi prodotto da Dino De Laurentiis, con Silvana Mangano. Ero un grande fan di Vittorio sin dai
tempi di Ladri di biciclette. Fu una bella esperienza. Era un personaggio affascinante e un regista straordinariamente efficiente. Girava solo ed esclusivamente ciò che gli serviva. Aveva tutto il film in testa».
Era anche un grande attore. Lei, tornando indietro, si dedicherebbe più alla regia che alla recitazione? «Sono felice della mia carriera di attore. Al tempo stesso, quando nel ’70 ho cominciato a dirigere il mio primo film, Brivido nella notte, pensavo già che avrei potuto star dietro la macchina da presa, anziché davanti, a far lo stupido… Ma nel complesso, è andata come volevo. Solo che a un certo punto ho deciso che volevo chiudere la carriera d’attore con un ruolo bello, in un film di successo. Quando ho girato Million Dollar Baby, ho pensato che era un bel finale. Poi è arrivata la chance di Gran Torino ed era un finale ancora migliore. Ma se capita un altro ruolo altrettanto bello, sono pronto».
Anche diretto da un altro regista?
«Perché no? Solo che i ruoli belli per un attore della mia età sono rari. In realtà sono proprio i bei film ad essere rari. Oggi è tutta azione, fantascienza, effetti speciali. Ai miei tempi c’era più varietà».
Un’ultima domanda che non possiamo non farle. Se dipendesse esclusivamente da lei, dal suo gusto, farebbe ancora un western? «Farei SOLO western. È il genere che amo. Sono cresciuto guardando i film di John Ford, di Anthony Mann, di Howard Hawks… e sono diventato un attore facendo prima i western in tv, come Rawhide, e poi la reinterpretazione italiana del genere nei film di Leone. L’ultimo che ho girato è stato Gli spietati, che era una bellissima storia. Ecco, dovrei trovare un’altra storia così forte, e magari innovativa, che mi porti su strade diverse da quelle già battute. Se la trovo, sono pronto a tornare nella prateria».

L’Unità 08.01.11