La strana unità d’Italia. Un ricco Paese di poveri: ecco l’Italia che si appresta a celebrare i 150 anni di Unità nel segno della diseguaglianza e delle difficoltà. E sempre più lontana dall’Europa. Nell’anniversario dell’Unità gli indicatori economici mostrano una nazione gravemente frammentata: cresce la povertà e aumenta il divario fra redditi
Alla faccia dell’Unità. Certo, con l’aria che tira è meglio non andare per il sottile e celebrarli davvero questi 150 anni, con tanti saluti a chi vorrebbe passare oltre o addirittura tornare indietro. Il guaio è che per smontare le fissazioni leghiste, finiamo per parlar d’altro. E per rispondere all’ipotesi insulsa di un improbabile stato padano, dimentichiamo di affrontare i problemi reali di un concreto stato italiano. Insomma, se non fosse per i teorici delle camicie verdi, oggi al governo, questi 150 anni sarebbero l’occasione per celebrare criticamente l’Unità d’Italia.
Ponendosi in tutta libertà una domanda semplice ma importante: l’Italia, questa Italia, è davvero unita? Centocinquant’anni dopo siamo davvero una nazione? O non siamo piuttosto un collage di realtà diverse.
Uno spezzatino di ingiustizie in salsa di furbizia e opportunismo. Il dubbio circola da tempo. Ma un paio di libri e una serie di dati recenti lo hanno trasformato in drammatica certezza. Ebbene sì, siamoun Paese sbriciolato, spezzato, frammentato. Unito di nome, ma diviso di fatto.
Lo spiega bene Maurizio Franzini, ordinario di Economia alla Sapienza di Roma che all’argomento ha dedicato un bel libro, Ricchi e Poveri, edito da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi. E lo illustra elencando una serie di classifiche, a cominciare da quella sulla disuguaglianza economica stilata dall’Ocse, l’organizzazione che studia l’andamento delle economie dei trenta paesi più avanzati. Di questi, solo cinque fanno peggio dell’Italia in base al coefficiente di Gini, un indicatore basato sui redditi di ciascuno (tutti i redditi, non solo quelli di lavoro) e che fornisce un’idea del livello di diseguaglianza di un paese: più alto il coefficiente, più grande la distanza tra le fasce ricche e quelle povere di quella nazione. In Svezia e Danimarca, dove le diseguaglianze sono più basse, il coefficiente Gini è del 23%, in Francia del 28, in Germania del 30. E l’Italia? Mostra un desolante 35%, superata in questa classifica negativa solo da Polonia (37%), Stati Uniti (38), Portogallo (42), Turchia (43) e Messico (47).E se ricordiamo che gli Stati Uniti non hanno un vero sistema di welfare e Turchia e Messico sono Paesi relativamente poco sviluppati, la posizione del nostro Paese assume un aspetto ancora più inquietante.
Guardando più da vicino, scopriamo che le regioni italiane, oltre ad essere diseguali tra loro, cosa che sapevamo, sono molto diseguali al loro interno. «È noto che tra le regioni del Mezzogiorno e quelle del Centro Nord vi è una significativa differenza di reddito pro capite», spiega Franzini. «Meno noto che all’interno delle regioni vi siano differenze molto ampie». La regione con la maggiore diseguaglianza è il Lazio che arriva al 33,9%, superando di poco la Sicilia e la Campania (33), mentre le regioni più “egualitarie” sono Friuli Venezia Giulia (26,2%) e Trentino (26%).
Uniti come Paese ma divisi come reddito. Con l’aggravante che le cose stanno peggiorando. Secondo l’Ocse, il coefficiente di Gini in Italia è aumentato di tre punti tra la metà degli anni Ottanta e la metà dei Novanta e di un Le ragioni del peggioramento sono molteplici, spiega Franzini: «Uno dei fattori è stato sicuramente l’abolizione della scala mobile a metà degli anni Ottanta e comportò la scomparsa di un meccanismo di compressione delle diseguaglianze salariali. Un’altra ragione fu la grave crisi valutaria ed economica del ’92 e che portò il governo Amato ad attuare un manovra restrittiva severissima, il cui impatto sugli strati più deboli della popolazione è stato molto marcato e più profondo di quanto non considerato al momento. Va anche detto che le diseguaglianze, in quegli anni, non erano al centro dell’interesse della politica e, per la verità, neanche della ricerca economica – conclude Franzini -. Questo forse può dar conto del fatto che la manovra fu meno attenta alle diseguaglianze di quanto avrebbe potuto essere».
Nel Paese delle diseguaglianze fa dunqueuncerto effetto parlare di unità nazionale. Di quale Italia parliamo? Di quella dei ricchi sempre più ricchi o dell’esercito sempre più numeroso di cittadini sempre più poveri?
Parliamo di quell’italiano ogni mille (0,1%)il cui reddito è cresciuto del 40% in dieci anni? Magari di quel cittadino ogni diecimila (0,01 %) per il quale la crescita è stata addirittura del 75%? O di quegli altri, quelli che non arrivano a fine mese o nemmeno a metà? Secondo l’Istat, nel 2009 le famiglie in stato di povertà relativa (quelle che possono spendere solo la metà della spesa pro capite del Paese) erano 2 milioni e 657 mila, pari a 7 milioni e 810 mila persone. I poveri “assoluti”, quelli non in grado di soddisfare bisogni essenziali per una vita dignitosa, superavano i tre milioni: 3.074.000 di persone e 1.162.000 famiglie.
Diseguali in tutto, nemmeno per la povertà riusciamo ad avere una distribuzione realmente nazionale: nel Mezzogiorno la povertà relativa, nel 2008, era del 23,8%contro il 4,9 del Nord e il 6,7 del Centro. La regione con la più bassa povertà relativa è l’Emilia Romagna (3,9%) mentre all’estremo opposto si trova la Sicilia con il 28,8%.
Andiamo avanti? Nel 150esimo dell’Unità d’Italia, undici famiglie su centonon riescono a scaldare adeguatamente la propria abitazione, il 5,7% lamenta rinunce alimentari e l’11,2 % non ha potuto permettersi spese mediche. E le cose non fanno che peggiorare: nel 2008, 11,9 famiglie su cento non riuscivano a pagare le bollette contro l’8,8 dell’anno prima; così come le famiglie che nonarrivavano a fine mese sono salite dal 15,4 al 17 per cento. Se poi ci concentriamo su una fascia particolare, quella dei più giovani, la fotografia è scioccante: la povertà minorile in Italia è ben al di sopra della media europea e raggiunge il 25 per cento. Avete letto bene: un minorenne su quattro vive in condizioni di povertà. Solo Bulgaria e Romania riescono a fare peggio.
E come si spiegano quei fondi per i figli e la famiglia che, da noi, sono tra i più bassi in Europa? «Nel 2007 l’Europa ha destinato alla voce Family and Child il 2,1% del proprio Pil, con Paesi come la Danimarca che arivano al 3,7 o come la Germania e la Francia che si attestano rispettivamente sul 2,8 e sul 2,5%. L’Italia – dice Marco Revelli, nel suo recentissimo Poveri, noi (Einaudi) – con un misero 1,2% (quasi la metà della media europea) si colloca agli ultimi posti, sotto la Spagna, insieme ai Baltici, al Portogallo e alla Polonia». E il Family Day? E i sostenitori dei figli ad ogni costo?
Non è ancora finita. Secondo l’Istat le famiglie che non possono affrontare una spesa imprevista di 750 euro stanno aumentando: nel 2008, ogni cento se ne contavano 32; in un solo anno sono diventate 33,3, una su tre. Nel 2010 quante saranno state? E nel 2011? Colpa della crisi, si dirà: la congiuntura, i subprime, le cavallette, come diceva John Belushi. Il punto è che crisi, povertà, subprime (e forse anche le cavallette) riguardano tutti i Paesi avanzati, ma solo l’Italia ha risposto alle difficoltà sgambettando i propri cittadini, anziché aiutandoli. Demolendo il concetto di identità nazionale, anziché cementandolo.
Altro che comunità, come dice il ministro Tremonti: nel Paese dei furbetti, vince chi comanda. Gli altri si arrangino. Lo dicono i numeri: l’Italia è il Paese che meno investe per contenere il fenomeno dell’esclusione sociale. Con 12,9 euro per abitante, la nostra è la quota più bassa di tutta l’Europa a 27: un sesto della media europea, un decimo di quanto spende la Francia, un’inezia rispetto ai 221 euro della Danimarca, una bestemmia per i 558 dell’Olanda.
Eccoli i numeri dell’illusione italiana, il curriculum di un Paese che «ha creduto di crescere declinando », come dice Revelli; eccolo il paradosso di una nazione dove i poveri aumentano di mese in mese mentre sul grande schermo dell’immaginario collettivo (e su quello piccolo dell’affabulazione televisiva) «viene proiettata la narrazione fantasmagorica, ammiccante di un benessere da piani alti». Un ritratto illusorio, dunque fatale. Perché anziché avvicinarci ai problemi, e magari alle soluzioni, ci spinge allegramente nella direzione opposta.
È questo il Paese di cui celebriamo il secolo e mezzo di unità? E’ qui la festa? E se davvero fossimo uniti non dovremmo, tutti insieme, fare il possibile per migliorare questa inaccettabile situazione? La realtà è che centocinquant’anni dopo torna d’attualità la frase che Garibaldi pronunciò il 15 maggio 1860 a Calatafimi. Con una indispensabile correzione: qui non si tratta più di fare l’Italia o morire. Ma di rifarla forse sì.
da l’Unità del 5.1.2011
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