Il mio tema di oggi è Sergio Marchionne. Ma il discorso augurale pronunciato la sera del 31 dicembre alla televisione dal Presidente della Repubblica merita una speciale menzione. Non è stato soltanto un augurio agli italiani, ma una strategia di governo, un orizzonte sul futuro e un intenso ricordo del passato in mancanza del quale nessun futuro può essere immaginato né costruito. Napolitano ha affrontato tutti i problemi che occupano l’agenda nazionale: l’unità del paese, la sua storia dal Risorgimento ad oggi con le dolorose tappe del fascismo, della guerra, del terrorismo; l’isolamento della politica e delle istituzioni, l’intollerabile aumento delle diseguaglianze, la mancata crescita economica, le condizioni del Mezzogiorno, il degrado di Napoli e la necessità della collaborazione collettiva. Ma ha battuto e ribattuto sulla necessità di aprire una prospettiva alla generazione dei giovani che non ha sbocco di speranza e di lavoro ed alla quale occorre dedicare ogni sforzo. Ha anche ammonito che non bisogna indulgere in un facile ottimismo che nasconde una realtà difficile e in certi casi drammatica. Un grande discorso che dovrebbe scuotere gli italiani e che – pur osservando una rigorosa neutralità politica – non ha risparmiato una classe dirigente politica ed economica troppo spesso chiusa in un egoismo castale di corta vista che Napolitano ha più volte denunciato e fustigato.
Speriamo che il consenso attorno al Presidente rappresenti un argine allo smantellamento della Costituzione attualmente in corso e una forza positiva per modernizzare il paese e rafforzarne i presidi democratici.
Lo speriamo, anche se la realtà molto spesso spezza le ali sulle quali quella speranza dovrebbe volare.
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I giornalisti del “24 Ore” hanno proclamato Sergio Marchionne uomo dell´anno. Sergio Romano, sul “Corriere della Sera” di venerdì, l´ha definito un “contro-italiano” paragonabile per questa sua caratteristica a Montanelli, Longanesi e Mario Pannunzio, per dire che anche lui, come quei tre, sta rivoluzionando il modo di pensare “conformista e controriformista” (parole di Romano) degli italiani.
Visto che c´era, l´ex ambasciatore poteva aggiungere anche il nome di Berlusconi; a suo modo anche lui è un anticonformista: smantellare la Costituzione democratica, fabbricare le leggi che tutelano la sua impunità, portarsi le “escort” in casa e per il resto lasciare il paese alla deriva, configurano una vocazione innovatrice che ha notevoli precedenti nella storia italiana, anche se non propriamente raccomandabili.
Bisogna stare molto attenti ad introdurre nello stesso fascio personaggi e modi di pensare così diversi l´uno dall´altro. Marchionne con Pannunzio e Montanelli c´entra come i cavoli a merenda. E´ vero però che è azzeccato definirlo l´uomo dell´anno: ha rivoluzionato il mercato del lavoro e le istituzioni che con il lavoro hanno attinenza, di fronte all´economia globale; li ha messi di fronte alla realtà, e questo è un merito che gli va riconosciuto.
Quelli che lo imputano di autoritarismo sbagliano nel senso che la gestione di un´azienda ha sempre avuto caratteristiche autoritarie: c´è un capo che decide. nei casi migliori decide dopo aver ascoltato i suoi collaboratori, nei casi peggiori fa di testa sua.
Il sindacalismo è nato storicamente per conquistare diritti all´interno delle imprese, che tutelino i lavoratori senza però associarli alla direzione delle aziende. Il capitalismo è questo ed ha sempre avuto due strade davanti a sé: a volte si è associato a regimi politici autoritari, a volte a regimi liberaldemocratici.
L´economia globale ha creato una situazione nuova, caratterizzata da due elementi. Il primo consiste nell´enorme rilievo assunto dalle forze economiche rispetto alle autorità politiche; esiste un´economia globale ma non esiste un governo globale.
Il secondo elemento è l´emergere di nuovi paesi che fino a ieri non facevano parte, se non marginalmente, dell´economia mercantile. La Cina, l´India, il Brasile (per citare gli esempi più rilevanti) sono entrati con un´irruenza fin qui sconosciuta nel mercato internazionale. Ne è venuto fuori un terremoto ulteriormente rafforzato dalla grande crisi scoppiata nel 2007 e tuttora in corso.
Marchionne non ne è stato la causa, ma uno degli effetti, reso visibile dal fatto che non è alla guida d´un impresa che produca piastrelle a Sassuolo o tessuti a Prato, ma della Fiat, l´impresa che da ottant´anni rappresenta l´industria italiana, ne ha determinato lo sviluppo economico ed ha anche modificato il costume del paese.
L´economia globale e la crisi hanno portato la Fiat alla resa dei conti e il terremoto ha scosso con prepotenza anche la nostra terra. Tutto il resto è chiacchiera.
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E´ molto duro dover perdere una parte del nostro benessere di paese opulento, in favore di paesi che emergono da un lungo sonno di arretratezza e di povertà. E´ molto duro anche perché la perdita di benessere non riguarda in misura omogenea i paesi di antica e accumulata ricchezza, ma solo una parte della loro popolazione. Riguarda in particolare i giovani, i lavoratori precari, le fasce deboli e i territori poveri di quei paesi.
E´ duro, ma purtroppo necessario per recuperare la competitività e la produttività perdute.
L´industria dell´automobile è in crisi nei paesi opulenti. Se ne producono troppe. La domanda ristagna. Bisogna difendere i mercati nazionali dalla concorrenza e bisogna esser competitivi per conquistare quote di mercato nei paesi emergenti.
Questa tenaglia non serra soltanto l´industria automobilistica; interi settori produttivi si trovano in analoghe strette: la siderurgia, la petrolchimica, il tessile, l´industria alimentare, la meccanica, l´informatica. Si salvano a stento i servizi, le professioni, il turismo, la telefonia, le materie prime (chi ne ha) e poco d´altro.
La Fiat del 2006, secondo la visione del Marchionne di allora, aveva davanti a sé floridi traguardi; due anni dopo era sull´orlo del fallimento. L´operazione Chrysler non fu una conquista di Torino ma un salvagente: un´azienda in fallimento che il governo americano voleva salvare e che un manager intraprendente utilizzò come punto d´appoggio per i modelli, i canali distributivi di cui disponeva e i molti miliardi di dollari che Obama metteva a disposizione.
Mettere insieme una capacità produttiva di due milioni di auto (Chrysler), di due milioni (Fiat) e di un milione (Opel), abbassando drasticamente i salari a Detroit e in Germania e chiudendo gli stabilimenti improduttivi in Italia: questo fu il piano.
Da noi bisognava anche aumentare la produttività imponendo nuovi comportamenti, nuovi orari, maggiore intensità nelle prestazioni, divieto di assenteismo e di sciopero.
Questo era ed è il programma di Marchionne per tenere in piedi, anzi per rilanciare la produzione italiana della Fiat; l´alternativa è la delocalizzazione in Serbia, in Polonia e in altri paesi, con costi più bassi e produttività più elevata.
L´operazione Opel andò in fumo per l´opposizione operaia e del governo tedesco. Restavano la Chrysler, la Fiat e i soldi forniti in prestito dal governo americano. Prendere o lasciare, cominciando da Termini Imerese da chiudere, da Pomigliano in alternativa con la Serbia finanziata dall´Unione europea e Mirafiori.
Contratti “ad hoc” di primo livello e nuove società; uscita della Fiat da Federmeccanica e disdetta dei contratti collettivi vigenti; rappresentanze sindacali in fabbrica limitate ai soli sindacati disposti ad accettare le condizioni; impegno del gruppo Fiat ad investire 20 miliardi in Italia nei prossimi dieci anni, cominciando con 800 milioni a Pomigliano e un miliardo a Mirafiori.
La Cisl e la Uil si dissero d´accordo e firmarono; negativa la Fiom e quindi esclusa dalla rappresentanza. Il referendum a Pomigliano dette il 60 per cento di sì e il 40 di no. A Torino il referendum si farà in gennaio. La Confindustria s´è dichiarata d´accordo su tutto ma non sui limiti della rappresentanza in fabbrica.
Questa è la situazione. Un ricatto, dice la Fiom. Un´alternativa, dicono Marchionne, i sindacati Cisl e Uil, il ministro Sacconi.
L´opposizione è divisa: una parte preme sulla Fiom affinché firmi (la stessa Cgil è su questa posizione) ma respinge la rappresentanza limitata.
I dirigenti Fiom hanno proclamato lo sciopero di categoria per otto ore il 28 gennaio e rifiutano l´intero programma. Si delinea inevitabilmente una trasformazione del sindacato in partito di antagonismo sociale. Ma i posti di lavoro? La competitività e la produttività? Le sorti dell´industria manifatturiera in Italia?
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Noi pensiamo che si tratti di un´alternativa e non di un ricatto. Il ricatto è un reato che, come tutti i reati, contiene un elemento di dolo. Se non c´è dolo si tratta appunto di alternativa. Marchionne agisce e propone in stato di necessità, quindi il dolo è escluso. Salvo una questione niente affatto marginale: come mai, in questi anni di crisi alcune aziende automobilistiche europee hanno mantenuto la produzione e i profitti? Volkswagen, Renault, Citroen, Bmw. Le loro quote di mercato sono in aumento in Europa e fuori e perfino sul mercato italiano. Come mai?
Fiat lavora ancora su vecchi modelli, vecchi e pochi. Il tentativo di rilanciare le piccole cilindrate è stato un mezzo flop. In Italia la quota di mercato Fiat è meno di un terzo, più del 70 per cento del mercato automobilistico italiano compra macchine straniere.
Pensare – come pensano Marchionne e Sacconi – che il recupero di produttività riguardi soltanto il fattore lavoro e non anche il fattore imprenditoriale, è una visione contraddetta dalla realtà comparata.
Ma poi c´è una seconda questione, un´essenziale seconda questione: l´inevitabile perdita di benessere a carico dei lavoratori dev´essere in qualche modo compensata.
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Chi è il padrone di Marchionne? O meglio: chi è il padrone del gruppo Chrysler-Fiat di cui Marchionne è il manager?
Il padrone, cioè il proprietario, è il sindacato dei lavoratori Chrysler, che possiede la quota di controllo del capitale attraverso il suo fondo-pensione. Hanno ridotto a metà i loro stipendi, i lavoratori Chrysler, ma l´azienda è loro. Se torneranno al profitto saranno loro a disporne. Il proprietario Fiat, specie dopo lo “spin” del gruppo, è un proprietario simbolico sulla via del disimpegno.
In Germania la Volkswagen è una “public company” e le banche che la finanziano sono controllate dai “lander”. In Francia la Renault è dello Stato francese.
I lavoratori italiani non hanno fondi-pensione, le loro pensioni sono nelle mani dell´Inps. Volendo, l´Inps potrebbe controllare la Fiat investendo nel capitale una parte del fondo pensione dei lavoratori. Allora la Fiat avrebbe un nuovo padrone, con Marchionne alla guida imprenditoriale.
Ma ci sono anche altre forme possibili di compenso. Per esempio la creazione d´un organo di vigilanza composto da rappresentanti dei lavoratori e da membri indipendenti, che controlli i recuperi di produttività derivanti dal rispetto dei nuovi contratti e quelli derivanti dalle innovazioni di prodotto da parte dell´azienda. E decida la destinazione delle risorse e degli investimenti.
Infine: il Parlamento decida sul tema della rappresentanza sindacale in fabbrica perché non è pensabile che ci siano lavoratori privi di rappresentanza sui luoghi di lavoro. Questo è un fatto non contestabile che non può avere alternative; se si insiste sui limiti di rappresentanza l´elemento del dolo diventa evidente. Posso rassicurare Sergio Romano, avendoli conosciuti tutti e due molto da vicino, che né Pannunzio né Montanelli sarebbero d´accordo con Marchionne su questo punto capitale.
La Repubblica 02.01.11
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“Meglio un passo indietro che lasciare i lavoratori senza punti di riferimento”, di P.G.
Epifani ha firmato il protocollo del welfare “per presa d´atto”. Non era un´adesione tecnica anche quella?
Fausto Durante è il leader della minoranza della Fiom, l´area che fa riferimento alle posizioni della maggioranza Cgil: «Se a Mirafiori vincessero i sì all´accordo – dice – la Fiom dovrebbe firmare. Fare un passo indietro sul piano ideale per non lasciare i lavoratori soli nella fabbrica».
Durante, qual è il suo giudizio sull´accordo di Mirafiori?
«E´ un giudizio negativo. Perché prevede il peggioramento delle condizioni di lavoro e perché è stato voluto per ridurre la democrazia interna escludendo la Fiom dalla fabbrica».
Che cosa farà la Fiom se al referendum vincesse il sì a quell´accordo?
«Se l´accordo passasse è chiaro che la Fiom rimarrebbe fuori dalla fabbrica. Per questo credo che a quel punto la Fiom dovrebbe mettere un firma tecnica sull´accordo, per evitare di lasciare i suoi iscritti senza rappresentanti sindacali. Altrimenti il rischio è che senza un delegato o una figura di riferimento in linea gli iscritti della Fiom e gli stessi lavoratori che simpatizzano per noi si rivolgano ad altre organizzazioni sindacali».
Voi dite ‘firma tecnica´. Ma è noto che le firme tecniche non esistono: o un accordo si firma o si boccia…
«Senza arrivare a citare Trentin che nel ‘92 firmò un accordo e poi si dimise perché sapeva che la Cgil non lo condivideva, ricordo che nel 2007 Epifani ha firmato il protocollo del welfare “per presa d´atto”. Non era una firma tecnica quella?».
Lei stesso dice che quell´accordo è negativo perché riduce la democrazia in fabbrica. Si può fare un passo indietro sulla democrazia?
«Se al referendum vincessero i sì, la Fiom sarebbe fuori da Mirafiori. Ci sarebbero tanti gazebo con tante bandiere rosse davanti ai cancelli dello stabilimento. Ma dentro la fabbrica gli iscritti e i simpatizzanti della Fiom sarebbero soli. Per non fare un passo indietro sul piano ideale finiremmo per dover fare un passo indietro nei luoghi di lavoro, nelle diverse Mirafiori che ci vedrebbero esclusi dal diritto di rappresentanza. Siamo in una fase in cui i rapporti di forza sono tutti a favore del capitale e il lavoro finisce per subire. Quale dei due passi indietro è meglio compiere? Secondo me è meglio arretrare sul piano ideale e rimane in fabbrica a resistere».
La Repubblica 02.01.11
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