Quello che segue è un “racconto di Natale” pur se per nulla edificante. Ma è un errore, e grave, pensare che la letteratura natalizia si debba rifare necessariamente a un canone zuccheroso e consolatorio. Si pensi che capostipite e paradigma narrativo può essere considerato quel Canto di Natale (1843) di Charles Dickens, che rappresenta una delle più disincantate analisi delle ingiustizie sociali nell’Inghilterra della prima metà dell’800, tra miseria nera e sfruttamento dei minori, analfabetismo e lavoro semischiavistico. Anche il nostro racconto di Natale ha tratti cupi: quelli di uno stabile fatiscente nel cuore di Roma, in una via che graziosamente si chiama “dei Villini”, dove vivono da anni circa 140 rifugiati somali. Le condizioni di quella coabitazione sono le stesse che si ritrovano in molte aree delle nostre metropoli, dove lo sviluppo urbanistico lascia ai margini costruzioni o semicostruzioni o ex costruzioni, che diventano rapidamente rifugio di chi dispone solo della “nuda vita”. Altrettante ferite aperte nel tessuto della città, escluse dalla rete dei servizi e dalla protezione sociale garantita dai diritti di cittadinanza, dove si raccolgono gli emarginati, gli sconfitti, gli infermi, gli affetti da patologie e da dipendenze. Si tratta di insediamenti che, in genere, si trovano nei lembi estremi delle città, ma che talvolta si insinuano all’interno delle zone dell’abbondanza e del benessere.
Quello di via dei Villini è uno di questi insediamenti, ma in realtà si tratta di una situazione ancora diversa: all’interno di una ex ambasciata vivono circa 140 profughi. Profughi: ovvero coloro che fuggono dal proprio paese a causa di conflitti armati o per motivi etnici o religiosi o politici o per appartenenza a determinate nazionalità o gruppi sociali. A essi lo Stato italiano ha riconosciuto la condizione giuridica di rifugiati, ma ha fornito loro appena un biglietto ferroviario per Roma e, su un pezzo di carta, quell’indirizzo di via dei Villini. Nient’altro. E nella medesima condizione si trovano a Roma circa 1500 profughi, altrettanto miserabilmente riparati negli insediamenti di Ponte Mammolo, Romanina, via Collatina e del binario 15 della stazione Ostiense. Nessuna politica pubblica e nessun programma di protezione che consenta loro l’inserimento sociale e la ricerca di occupazione, l’accesso ai servizi e il riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Tanta avarizia colpisce dolorosamente in una società, come quella italiana, le cui istituzioni democratiche devono molto al sacrificio di quanti – settant’anni fa – furono, a loro volta, fuggiaschi, profughi, clandestini in terra straniera per sottrarsi alla dittatura fascista e contribuire, da oltre confine, alla lotta per la democrazia. Tra loro, Sandro Pertini e i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini e Bruno Buozzi, Leo Valiani e Giorgio Amendola e migliaia e migliaia di altri noti e anonimi: molto diversi, per tratti culturali, politici, sociali e psicologici da chi fugge oggi dalla Somalia o dall’Afghanistan, ma per altrettanti tratti così simili. Di quelle vicende di settant’anni fa quasi non resta più traccia nella memoria collettiva del nostro paese e questo spiega forse l’ignavia e la codardia del governo italiano su tali questioni: tanto più che il principale partito della maggioranza, il Pdl, sulla rimozione di quella storia e delle sue lacerazioni, così dolorose ma così gravide di futuro, costruisce la propria malcerta identità e la propria aggressiva ideologia.
È lo stesso governo che non è stato capace di dare una risposta decente agli interrogativi su una tragica emergenza umanitaria. Dal novembre scorso 250 profughi (eritrei etiopi sudanesi somali) sono tenuti in catene da un gruppo di predoni nel deserto del Sinai. Uomini donne e bambini che progettavano di fuggire in Israele e che – fallito l’intento – sono diventati vittime e merce di scambio di una crudele strategia di estorsione. Dal 20 novembre chiediamo al governo italiano di intervenire, com’è suo dovere fare per più ragioni: per il rapporto di amicizia che lega l’Italia all’Egitto e perché una parte di quei profughi è stata respinta mentre tentava di raggiungere le coste italiane e, sempre dal novembre scorso, chiediamo al governo egiziano – firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati – di salvare quelle vite. Ma solo ieri, come riporta Avvenire (che, con l’Unità, segue passo dopo passo la vicenda) il governo egiziano ha ammesso l’esistenza degli ostaggi, pur se l’unica iniziativa presa è stata la cattura di 27 profughi e la loro consegna alle autorità dei rispettivi paesi. Con le conseguenze che è facile prevedere. Qui termina il nostro racconto di Natale: come tutti i racconti che si rispettino non ha un lieto fine. A meno che uomini e donne di buona volontà non si impegnino per modificare la conclusione.
L’Unità 31.12.10