Una società meno divisa e capace di costruire un futuro comune. È il vero sogno di Natale e di fine anno, ha scritto giorni fa su queste colonne Bruno Forte e io sono d’accordo con lui. Non so se lo sono tutti – sono tanti i malati che s’innamorano della loro malattia – so per certo che la divisione e l’aggressività interna di cui soffriamo non sono una malattia solo italiana, sono il frutto di cambiamenti profondi che hanno investito e pericolosamente adulterato una buona parte delle democrazie avanzate.
Il mese scorso la School of Government della Luiss ha organizzato un seminario internazionale sul tema «Governare le democrazie». Ebbene, le differenze nelle forme di governo a cui attribuiamo così tanta importanza nelle nostre discussioni sulla riforma istituzionale – la differenza fra governi presidenziali e governi parlamentari, o quella fra governi del primo ministro e governi più collegiali – sembravano tutte più o meno irrilevanti davanti alle comuni difficoltà che sono emerse. E le difficoltà sono quelle di conflitti politici, che estraggono dalla società interessi, sentimenti e orientamenti diversi, li radicalizzano facendone bandiere sventolanti di confronto identitario e li rendono così non più componibili.
Né è necessario che tutti si comportino così perché si arrivi, lungo questa strada, alla delegittimazione reciproca, alla paralisi decisionale e alla conseguente corrosione di ogni tessuto comune. Basta che lo facciano parti consistenti del sistema politico. L’esperienza dei primi due anni della presidenza Obama, sottoposta a un’opposizione del genere e dopo un po’ ridotta all’angolo dagli stessi elettori, è una prova eloquente di ciò che viene accadendo. Quanto all’Italia, basti dire che chiunque si adopra per trovare ragionevoli soluzioni comuni a problemi comuni è subito accusato di tentato inciucio dalle tricoteuses di entrambi gli schieramenti. E il nome stesso del reato testimonia la povertà culturale di chi lo brandisce.
Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo e come ci siamo arrivati? Ci sono ovviamente delle specificità nazionali, ma ci sono anche delle grandi tendenze comuni. La prima investe la religione, un tempo fonte primaria di valori comuni e accomunanti nelle nostre società, che negli ultimi decenni ha visto restringersi la sua presa conformativa dei comportamenti individuali e collettivi e ha reagito accentuando l’intransigenza dirimente delle sue posizioni. Ciò sta accadendo nelle società europee e ancora di più nella democrazia americana, dove la libertà stessa e la civile convivenza dei cittadini poggiavano sulla guida morale che la religione manteneva salda nelle loro coscienze (se n’era subito accorto Tocqueville e lo ha poi insegnato John Dewey), e dove oggi fioriscono i fondamentalismi religiosi che sfidano e condizionano la politica. Col che, lungi dallo stemperare il confronto in nome di un bene comune, la religione contribuisce a esasperarlo.
La seconda grande tendenza riguarda l’indebolimento dei partiti, così come li avevamo conosciuti nel secolo scorso in particolare in Europa. Per decenni essi avevano reso possibile il governo delle nostre società, rappresentando i tanti e diversificati interessi cresciuti all’interno di queste, ma anche filtrando le domande di ciascuno e riconducendole a una visione comune, che essi portavano nelle sedi istituzionali con un personale preparato a farlo. Poi certo si sono ossificati e hanno perso il loro stesso bacino di coltura in società d’individui sempre meno organizzabili nei collettori politici tradizionali. Ma la loro funzione di rappresentanza e insieme di filtro è rimasta come un bisogno sempre più insoddisfatto.
E qui si è inserita la terza grande tendenza del nostro tempo, quella che, attraverso i mass media, ha sostituito all’organizzazione la comunicazione politica, connettendo direttamente agli elettori e più in generale alla pubblica opinione chi aspira all’elezione o già è stato eletto. È venuta meno così la discussione che in seno ai partiti metteva a confronto e riconduceva a denominatori comuni i vari interessi, è venuta meno la formazione che essi fornivano al governo degli affari collettivi, si sono drasticamente semplificati i messaggi politici (i mass media non tollerano la complessità del ragionare) e in questo contesto chi gioca la carta dell’estremizzazione gioca la carta vincente.
Si aggiunga infine che le tre tendenze hanno interessato le nostre società nel momento in cui queste si sono venute aprendo ad altre etnie e ad altre religioni, aumentando le diversità e i conflitti che la politica può usare per dividerle. Come uscirne? Di sicuro non possiamo uscirne all’indietro e quindi il ruolo positivo a cui assolvevano i vecchi partiti non deve portarci ad averne nostalgia, non solo per i guasti di cui essi si resero responsabili nella loro fase declinante, ma anche perché ripristinarli com’erano sarebbe comunque impossibile. Mentre è largamente inutile – lo accennavo all’inizio – lanciarsi in riforme dei vertici istituzionali, che non arriverebbero a toccare le radici del male.
Il male è curabile se lo mettiamo a fuoco così come invita a fare Amartya Sen, quando scrive (Identità e violenza, Laterza 2006) che l’Occidente identifica la democrazia con le elezioni, ma il cuore di essa è il processo di discussione e di amalgama degli interessi, sul quale l’Oriente ha molto da insegnare. Non so se lo dobbiamo imparare a Oriente o a Occidente, ma di sicuro quel processo è essenziale ed è esattamente quello che ci stiamo perdendo. Andiamo a votare sulla base di sentimenti esasperati ed eleggiamo esperti non in governo, ma in esasperazione.
Più dell’ingegneria costituzionale può allora servire l’ingegneria sociale in funzione costituzionale, la promozione cioè di sedi e di occasioni che consentano ai cittadini di discutere in modo informato e ragionato dei temi che li riguardano. Si chiama in inglese “deliberative democracy”, ci sono dei professori che la organizzano in via sperimentale, va resa prassi costante della politica e possono impegnarsi a farlo le associazioni volontarie, le istituzioni locali e, perché no, gli stessi partiti. Hanno ancora ramificazioni territoriali e possono usarle per qualcosa di meglio che non raccogliere voti o firme nei gazebi.
Ma serve non meno ricondurre l’etica all’etica e quindi rinunciare all’ubris, all’eccesso, nell’affermazione dei propri valori. Quando il nostro Presidente chiede di abbassare i toni, il problema non è solo di volume, ma di disponibilità a verificare la propria verità insieme agli altri e non contro di loro. Le religioni che ormai convivono nelle nostre società concordano nel dirci che siamo tutti figli dello stesso Dio. E cos’altro dovrebbe significare, se non aprire la strada al nostro sogno di fine anno?
Il Sole 24 Ore 30.12.10