Maria Antonietta non ordinò mai la famosa collana di diamanti, e non disse mai di dare da mangiare al popolo brioche. Ma per ristabilire queste verità sono stati necessari almeno un paio di secoli, e nel frattempo, come dire, Maria Antonietta, dal suo aldilà, di questa verità non sa esattamente più che farsene: non saranno un po’ di storici a recuperarle una reputazione che i libelli anti regime le hanno in ogni caso rovinato in eterno.
La macchina del fango è una cosa seria, e quella che abbiamo visto al lavoro, indefessamente, negli ultimi anni in Italia, è ancora ben poca cosa. Ha dunque ampiamente tempo e occasione per crescere, se i suoi apprendisti stregoni lo vorranno. Una certezza infatti abbiamo su questo strumento: la macchina della delegittimazione è straordinariamente efficace, ed è sicuramente irreversibile.
E’ una tesi, d’altra parte, già sostenuta in un libro scritto un po’ di anni fa, nel 1996 (nel 1997 pubblicato in Italia da Mondadori), e che val la pena rileggere nel clima che si respira oggi in Italia. In «Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all’origine della Rivoluzione francese», il noto storico di Harvard, Robert Darnton (autore di un altro libro culto degli Anni Ottanta, «The Great Cat Massacre and Other Episodes in French Cultural History», 1984) racconta come la libellistica settecentesca francese, con le sue opere erotiche e di diffamazione politica, abbia contribuito a preparare la Rivoluzione tanto quanto il possente lavoro intellettuale degli illuministi.
Anzi, sottolinea Darnton, il lavoro filosofico dei Lumi diventa tanto più efficace perché reinterpretato e popolarizzato attraverso la letteratura erotico-diffamatoria. Il più alto esempio di questa commistione è, secondo lo studioso, «Les Bijoux indiscrets», uscito dalla penna di Denis Diderot, il più libertario dei grandi illuministi francesi.
L’accostamento fra il clima prerivoluzionazio francese e gli schizzi italiani odierni sembra – mi rendo conto – pretenzioso oltre che forzato. In realtà, se è vero che la diffamazione è sempre stata, nei secoli – dall’impero romano ai regimi autoritari del Novecento, quali fascismo e comunismo -, uno strumento politico per eccellenza, è durante la rivoluzione francese che assume i caratteri di quel mix tutto a noi contemporaneo di sesso, politica e comunicazione di massa. Un esempio che parla bene al nostro orecchio è il best seller prerivoluzionario «Anecdotes sur Mme la Comtesse Du Barry», del 1775, in cui si racconta l’ascesa di Marie-Jeanne Béen, contessa Du Barry, dal bordello dove esercitava la sua professione di prostituta al letto del re di Francia, e dunque al potere. Una scalata che fa leva sulle debolezze del corpo del re, sessuali o meno che esse fossero. Un corpo concepito nella tradizione come sacro, e che viene invece materialmente avvilito dai suoi stessi bisogni, al punto da far risultare un’associazione imperdibile, secondo Darnton, cioè che lo scettro «non è più solido del pene del re». Il libro contribuì così a creare una forte impressione, il luogo comune che «una masnada di farabutti si era impadronita dello Stato, aveva dissanguato il Paese e trasformato la monarchia in dispotismo». Naturalmente, osserva Darnton, la verità storica è ben lontana da tutti questi racconti; ma la verità, appunto, arriva troppo tardi.
Detto questo, va aggiunto che è ovvio (e anche lo storico non intende sostenere nulla di diverso) che la rivoluzione francese è un evento più grande della libellistica che aiutò a prepararla; ma lo studio sull’efficacia della manipolazione pubblica vale, si è visto poi, per altre cause, altri travolgimenti storici, di segno anche perfettamente contrari tra loro. Molto rilevanti dunque per l’oggi sono le conclusioni che Darnton trae in merito: «Le nostre fonti ci consentono di stabilire un nesso tra la circolazione della letteratura illegale da un lato, e la radicalizzazione dell’opinione pubblica dall’altro».
Frase, quest’ultima, che è la chiave giusta per capire la distinzione fra denuncia e diffamazione: la prima vive della verità, ed è dunque provabile e provata, la seconda vive dell’illegalità, e dunque non solo può ma deve vivere di falsità, di mancanza di prove. La forza d’impatto della diffamazione è proprio nella sua capacità di insinuare, non di dimostrare.
Come si vede, che abbiano o meno letto i libri citati, gli operatori a tempo pieno della macchina del fango del nostro Paese hanno delle ottime ascendenze, e sanno cosa fanno. Una denuncia funziona tanto più se non ha certezza, è tanto più efficace se non provata. La scelta del direttore di Libero, Maurizio Belpietro, di scrivere storie sentite e non verificate, di dare voce a sospetti come se fossero verità, è perfettamente allineata con queste regole.
Eppure, nello scrivere queste parole, non tutto torna. Maurizio Belpietro non è l’ultimo arrivato del giornalismo italiano. Sa bene cosa scrive, ne calcola gli effetti, e conosce meglio di chiunque, essendo da tanti anni direttore, le regole della verifica delle fonti. Se un giornalista di questo livello passa al prossimo stadio del «senza fonti», ci dobbiamo chiedere non tanto perché lo fa, ma cosa registra.
In effetti, la sua scelta registra per tutti noi, non tanto una nuova fase nella battaglia politica interna al centrodestra, quanto la presa d’atto che si è entrati in nuove condizioni politico-temporali: se è vero che la delegittimazione funziona perché offre un’immagine, dà un suggerimento, solleva, come si sarebbe detto una volta, in un’altra sinistra, «un’emozione», allora forse non vale nemmeno più la pena di mascherarla con prove posticce o servizi giornalistici sbilenchi. Insomma, chi vuole una mezza verità se la falsità totale suona tanto meglio?
La nuova fase della macchina del fango è questa: ce la segnala Belpietro con il suo solito andare alla «sostanza» delle cose, com’è nel suo stile sincero. Il suo editoriale di due giorni fa è il «next step», il futuro prossimo venturo del clima in cui vivremo.