Mentre la legge di riforma dell’università attende di essere definitivamente attuata, è forse utile riflettere ancora brevemente su uno dei più abusati luoghi comuni che vengono addotti per contrastare le motivazioni di chi giudica la legge inadeguata e dannosa per il sistema universitario italiano: le classifiche.
Nel proliferare delle graduatorie che confrontano i risultati conseguiti dagli atenei del mondo si rileva in genere, quasi con una sorta di malcelata soddisfazione, come le università italiane navighino in posizioni di retrovia, oltre il 200°, 300°, 400° posto: ecco dunque la prova provata della nostra inefficienza e arretratezza colpevole. Quasi mai, però, il giudizio sanzionatorio si spinge anche a sottolineare come le singole graduatorie siano state elaborate.
E una prova della distrazione con cui i critici dello stato dei nostri atenei e i sostenitori acritici della riforma Gelmini si rapportano sta proprio nella reiterata considerazione che il sistema universitario italiano avrebbe troppi professori, mentre è vero il contrario: per ogni docente in Italia ci sono 38 studenti, più del doppio della media Ocse.
In ragione di ciò tutte le classifiche che tengono conto di tali indicatori andrebbero lette considerando l’handicap con cui l’Italia si presenta al confronto: sarebbe come se in una gara dei 100 metri piani alcuni atleti partissero 50 metri più indietro degli altri e di ciò non si tenesse comunque conto nello stilare l’ordine d’arrivo a fine corsa. Gravissimo errore, perché le classifiche così disinvoltamente e scorrettamente utilizzate hanno un effetto molto negativo sulla forza di attrazione che i nostri atenei possono dispiegare sia all’interno sia all’estero, con un pesante danno economico e sociale per il nostro paese. Tale situazione accresce la necessità/urgenza che operi a livello nazionale un’agenzia come la futura (quanto?) Anvur, in grado di valutare gli atenei con parametri condivisi e a tutti noti e trasparenti.
Ciò detto è possibile e opportuno approfondire ulteriormente l’analisi: ce lo consentono ora i dati di una recente indagine, la più complessa finora prodotta, concepita utilizzando il sistema bibliometrico messo a punto nel prestigioso istituto Karolinska di Stoccolma; in essa si valutano i prodotti di ricerca di circa 5mila università di 87 paesi del mondo.
Nella graduatoria che ne è sortita, 310 università risultano avere superato il livello “alto” di 5mila prodotti di ricerca nel periodo 2003-2007: fra queste, 108 atenei statunitensi, 30 tedeschi, 25 inglesi, 20 canadesi, 15 italiani, 12 spagnoli e a seguire giapponesi e olandesi (11), francesi (9), australiani e svedesi (8), eccetera.
Certamente la presenza in questa classifica di élite di ben 15 università italiane pone la nostra ricerca in una posizione superiore alla maggior parte dei paesi europei, eccezion fatta soltanto per Germania e Gran Bretagna. E se è vero che i nostri atenei si collocano tra il 207° e il 296° posto, è altrettanto vero che confrontando i dati delle 310 università di élite, e ponderandoli in relazione alla quota di Pil che i singoli paesi destinano a università e ricerca, il primo dei nostri atenei in questa graduatoria, e cioè l’Università di Torino, scalerebbe la classifica fino a portarsi ai primissimi posti, al di sopra anche di atenei come Oxford o Barcellona e a ridosso dell’École Polytechnique di Losanna. Un progresso proporzionale analogo varrebbe ovviamente anche per le altre 14 università italiane.
Insomma, le classifiche valgono soltanto in funzione dell’omogeneità di tutti i parametri considerati e tenendo rigorosamente conto delle variabili che influenzano il funzionamento e quindi la qualità dei diversi atenei. In questo senso, come dimostra l’esempio appena fatto, certe posizioni apparentemente di retroguardia che molte graduatorie assegnano ai nostri atenei si tradurrebbero in posizioni d’eccellenza. È già di per sé straordinario il fatto che i ricercatori universitari italiani siano in Europa al terzo posto per produttività scientifica mentre l’Italia si colloca a uno degli ultimi posti per quota di finanziamento della ricerca in relazione al Pil.
Attenzione, dunque, ad alimentare un gioco al massacro contro l’università italiana. La riforma Gelmini sembra non avvertire tale pericolo: la legge viene prevalentemente presentata, anche dallo stesso ministro, come una sorta di regolamento di conti rispetto a un’università incapace, inefficiente e corrotta, guidata da una banda di baroni conservatori, reazionari e nepotisti, insensibili alla meritocrazia, refrattari alla valutazione, ostinati nel non cedere il loro posto alle giovani generazioni. Di qui, lo stupore, sincero o affettato, per l’alleanza “contro natura” tra professori, ricercatori e studenti contro la riforma.
Ma a dispetto di tutto ciò e a dispetto non delle classifiche ma dell’errata o parziale interpretazione di esse, l’università resta per l’Italia forse l’unico vero strumento per avviare un processo di sviluppo e di competitività internazionale. Se è vero che i giovani italiani sono stati negli ultimi decenni depredati del loro futuro, è altrettanto vero che ogni tentativo di ricostruire la speranza per le nuove generazioni, per il paese, passa da un’università efficiente e all’altezza della situazione. L’università italiana è attrezzata per questa difficile sfida sull’avvenire: non distruggiamola definitivamente per miope calcolo di bottega politica. Siamo ancora in tempo per farcela.
Ezio Pelizzetti è rettore dell’Università di Torino
da www.ilsole24ore.com