Un politico democristiano di primo piano che ha attraversato tutte le esperienze della Prima Repubblica è solito dire che probabilmente anche i suoi compagni di partito mangiavano, ma almeno sapevano stare a tavola. Se proprio non erano del tutto onesti, avevano pur sempre uno stile.
Questa considerazione mi è tornata in mente assistendo ad alcuni momenti del recente dibattito sulla fiducia alla Camera e, successivamente, a quello sulla riforma Gelmini in Senato: parolacce, insulti, gesti osceni, tutta una fenomenologia del cattivo gusto. E non è il solo caso nel quale abbiamo assistito non dico a una caduta di stile, ma all’assenza totale di stile, anzi all’assoluta mancanza di rispetto per le più elementari norme di buon comportamento, che appartengono, o dovrebbero appartenere, al patrimonio di ciascuno di noi, acquisito fin dalla scuola elementare.
Stile, del resto, vuol dire educazione, serietà, rispetto degli altri, impegno professionale e civile: tutte doti che in questa triste e oscura fine d’anno sembrano ormai eclissate dalla nostra vita quotidiana. La classe politica – quella che si insulta in Parlamento le poche volte in cui è massicciamente presente – rispecchia bene la società civile, almeno nella sua maggioranza. Fuga dalle responsabilità, rancore, invidia, rabbia, furbizia sembrano essere le direttrici dei comportamenti individuali e collettivi, cui corrisponde una ricerca del tornaconto immediato, senza alcun interesse per il bene comune e per quella che una volta si chiamava etica civile. Dalle polemiche tra istituzioni alla furia distruttrice di alcune frange estreme inseritesi nel movimento studentesco, fino al «Natale nella monnezza» di Napoli, è tutta una costante esplosione di comportamenti irresponsabili, violenti e irrazionali, con il rifiuto di un confronto civile e il disprezzo delle norme e delle istituzioni che costituiscono il fondamento della democrazia.
Siamo di fronte a una totale deresponsabilizzazione dei comportamenti: comincia dalla vita familiare che poco si interessa dell’educazione dei figli, ma li vuole proteggere dagli insegnanti rigorosi e ne favorisce l’esodo verso scuole facili, fino all’università, ove i molti laureifici assicurano il superamento degli esami e il conseguimento di una laurea; poi, in una continua fuga dalla realtà, la ricerca di case per vacanze, di viaggi esotici, di feste matrimoniali, tutto pagato a rate. Sovrana è la voglia di mostrare al vicino di essere di lui più furbi, più forti e benestanti.
Importante è non assumere responsabilità, poi si vedrà! Un concorso come quello per vicesovrintendente della Polizia di Stato ha sottoposto ai candidati sedicimila test sbagliati? Nessuno è responsabile e, forse, il concorso andrà ripetuto, a meno che un abile burocrate non salvi tutti, alla faccia dell’irregolarità del concorso e degli errori della commissione che ha formulato i test.
Del resto, quanto avvenuto nel recente concorso (di altre irregolarità in concorsi di quest’anno si è già persa memoria) sembra essere poca cosa di fronte al gioco sporco di interessi nati attorno a grandi cataclismi, come il terremoto dell’Aquila, o a scandalose emergenze come quella dei rifiuti in Campania: anche qui, promesse tante, nulla di fatto, nessuno è colpevole, mentre prosegue il lucroso lavoro delle cricche, aquilane o camorriste, ben protette da poteri che si fingono stupiti e non responsabili.
Forse proprio la deresponsabilizzazione costituisce il motivo comune nel variopinto e sconfortante panorama italiano. Non è responsabile il politico che promette e non mantiene, non lo è il chirurgo che trascura il paziente per litigare con il collega, non i commissari di un concorso palesemente irregolare, non il ragazzo che, non avendo studiato, viene bocciato, non il giornalista che non si accerta della veridicità di una notizia prima di riportarla, non il presidente di un ente – di raccolta spazzatura o di ricerca – che assume amici o parenti senza concorso, per chiamata diretta; non gli organi preposti alla tutela del patrimonio artistico che va in rovina, non i dirigenti dei servizi pubblici e della Protezione civile, quando lasciano tanti cittadini una notte in autostrada, bloccati dalla neve ampiamente prevista.
Nessuno vuole più farsi carico delle proprie scelte, e ancor meno del bene comune: la giustizia terrena procede lentamente e, se si hanno buoni avvocati e tanti mezzi, giunge a una sentenza definitiva quando il reato è già prescritto. D’altra parte, la giustizia celeste – siamo il Paese della Controriforma – permette sempre degli accomodamenti. Quanto al bene comune, i concittadini, tutti irresponsabili, diranno: parliamone la prossima volta.
Il Corriere della Sera 28.12.10