Come Charlie Chaplin con un gigantesco mappamondo tra le mani, Silvio Berlusconi contempla un orribile 2010 esaltando gli splendori del pianeta “pacificato” grazie alle sue virtuali capacità taumaturgiche, e non vede le reali miserie politiche ed economiche nelle quali sta precipitando il Paese che governa. Il presidente del Consiglio celebra il rito della conferenza stampa di fine d’anno tra la velleità ridondante del “Grande Dittatore” e la verbosità estenuante di Fidel Castro.
Il mondo gli deve tutto: lui ha “imposto a Obama e Medvedev la sigla del Trattato Start” sulle armi nucleari, lui “ha fermato i carri armati russi a 20 chilometri da Tbilisi”, lui ha “suggerito a Gheddafi di dare una casa di proprietà di 25 metri quadrati a ogni libico”, lui si occupa “da trent’anni di Medioriente, per sanare la ferita aperta tra israeliani e palestinesi”.
Un delirio di onnipotenza imbarazzante. Che svanisce miseramente quando il Cavaliere è costretto suo malgrado a ripiegare lo sguardo sui disastri della povera Italia. Qui emerge un ricettario di impotenza inquietante. Il premier non ha una soluzione da offrire, per nessuno dei problemi che tormentano il Paese. Dalla governabilità politica alla crisi economica. Dal disagio sociale al divario inter-generazionale. Nell’eterna transizione italiana, Berlusconi non sa indicare alcun approdo. Sul piano dell’immagine, l’alluvionale “performance” di Villa Madama ci regala soprattutto questo: un leader non più
capace della “narrazione” che gli ha consentito di stravincere tre elezioni in quindici anni. Demiurgo con il sole in tasca, è ideale per cavalcare i tempi d’oro, ma del tutto inadatto a gestire i tempi di ferro. Parafrasando Ilvo Diamanti: l’uomo della Provvidenza non c’è più, l’uomo dell’Emergenza non c’è mai stato.
Sul piano politico, le quasi tre ore di vaniloquio berlusconiano ci consegnano un premier palesemente indebolito dalla vittoria di Pirro del 14 dicembre. Un premier costretto al puro galleggiamento, di qui all’inizio del 2011. In attesa del buon esito di un’improbabile, ulteriore tornata di affari al “mercatino di gennaio”, come si conviene alla truce campagna-acquisti parlamentare avviata alla vigilia del voto sulla fiducia di due settimane fa. In attesa, soprattutto, della sentenza della Consulta sul legittimo impedimento, fissata per l’11 gennaio. Sarà quello il vero snodo della legislatura, perché al dunque, l’unica cosa che sta a cuore al Cavaliere è il suo destino processuale, dal quale non può scindere il suo destino politico. In questa quiete che prepara la tempesta, il Cavaliere navigherà a vista.
La sua lettura del quadro politico attuale e potenziale è un coacervo di contraddizioni. “Con tre voti di maggioranza si può governare”, dichiara. Ma al tempo stesso proprio lui evoca i “governi di minoranza” che già guidano altre grandi democrazie, dalla Germania della Merkel all’America di Obama, passando per il Canada. È “ragionevole” aprire un tavolo con il Terzo Polo, annuncia. Ma poi quantifica in appena 325 la quota dei deputati raggiungibili di qui al prossimo mese: una Linea Maginot francamente modesta, e dunque destinata a franare comunque. Considera “irragionevole” il ritorno alle urne, ma poi torna lui stesso ad ipotizzare le elezioni anticipate, “se non dovessimo avere una maggioranza sufficiente in tutti e due i rami del Parlamento”.
Tutto è il contrario di tutto. Con una sola certezza: l’orizzonte corto di questo governo e di questa maggioranza. Con un leader che mangia il panettone di Natale, ma non ha munizioni per fronteggiare il Generale Inverno che attanaglia il Paese. Al cronista che gli chiede conto dei dati ufficiali sui freschi record negativi italiani nella disoccupazione, nella competitività e nella pressione fiscale risponde solo “faccia un bagno di ottimismo”. E alla domanda “ha in mente qualcosa di specifico” per fronteggiare queste emergenze, replica l’irreplicabile: “No, non ce l’ho”. Testualmente. Detto dal capo di governo di un Paese con crescita zero e con i fucili puntati della speculazione internazionale, c’è da rabbrividire.
Come c’è da rabbrividire sul rilancio del “grande partito dei moderati”. Al fondo, l’unico messaggio forte di questa kermesse berlusconiana di fine d’anno è l’ennesimo attacco devastante alla magistratura. Un ricatto ai pm, riuniti “in un’associazione per delinquere con finalità eversive”: processatemi pure, poi ne risponderete in una commissione parlamentare d’inchiesta. E una minaccia ai giudici della Corte costituzionale, “organo non più di garanzia perché in mano alla sinistra”: bocciate pure la legge sul legittimo impedimento, e la vostra sarà “una sentenza politica”. Ineccepibile: è la versione berlusconiana della “leale collaborazione tra le istituzioni”.
Ma qui, ancora una volta, sta la vera posta in gioco. Il ciclo politico berlusconiano si può chiudere com’era cominciato: con l’ossessione giudiziaria. La fuga dalla responsabilità penale, sanata per sempre dal suffragio popolare. Se l’11 gennaio la Consulta farà saltare questo nesso “sacrale” (e, nella visione tecnicamente totalitaria del premier, fondativo di un nuovo potere non tangibile e non imputabile) salterà il tavolo della politica. Berlusconi imboccherà la via delle elezioni anticipate, privilegiando l’interesse personale a dispetto dell’interesse nazionale. E non farà prigionieri, lanciandosi in una campagna elettorale feroce. Consumata nelle tv, nelle piazze e persino nelle aule di tribunale. È l’ultima scena del Caimano di Nanni Moretti. Speravamo fosse una finzione. Rischia di diventare una realtà.
La Repubblica 24.12.10