Dopo la sbornia del “yes, we can”, meno vittimismo e più esempi. Il 2010 è stato l’anno delle sabbie mobili: né avanti né indietro, ma sempre più a fondo. Si discute di nucleare, mentre l’energia di cui avremmo maggiormente bisogno è la passione. Quella che ti spinge prima a immaginare il futuro e poi a crearne uno. Gli innocenti non sapevano che la cosa era impossibile e per questo la fecero, scriveva Bertrand Russell. E invece, dopo la breve sbornia obamiana, «yes we can» ha lasciato di nuovo il posto a «non si può», che è il mantra degli arresi, la gabbia contro cui si spiaccicano i sogni.
Il 2010 si chiude con gli studenti in piazza e presto potrebbe toccare ai pensionati e persino agli occupati, perché se gli stipendi stanno diventando cinesi, il costo della vita rimane drammaticamente europeo. Ci si può opporre a questa crisi epocale che ha cambiato il flusso millenario della storia? No, ma ci si può convivere. Purché tutti facciano qualcosa. E in quel tutti ci siamo davvero tutti. Noi e loro. Loro sarebbero i politici, la classe dirigente. Alla quale per il 2011 non chiediamo miracoli, ma un sussulto di dignità. Anzitutto il coraggio di qualche scelta impopolare che privilegi l’istruzione, la ricerca, la cultura e l’ambiente, sacrificando all’occorrenza qualcosa del resto, perché la sopravvivenza di una specie è garantita dalla crescita dei giovani, non dall’immortalità degli anziani. Dai potenti vorremmo meno prediche e più buoni esempi. Più decenza e senso della realtà. Un presidente del Senato non può menare vanto che i parlamentari lavorino fino all’antivigilia di Natale e poi aggiornare la seduta al 12 gennaio. La classe dirigente si gloria di assomigliare alla società anche nei difetti, ma è proprio questo che le ha tolto autorevolezza. Pretendere da un leader comportamenti superiori alla media – nel trattare i soldi, nel trattare le donne – non è moralismo, ma la precondizione per la tenuta della gerarchia sociale. Se il capufficio ruba e tocca il sedere alla segretaria, gli impiegati si sentiranno autorizzati a fare altrettanto.
Magari lo ammireranno, ma non lo rispetteranno più. Però sarebbe troppo comodo gettare tutto il peso del 2011 sulle spalle di chi ha responsabilità pubbliche. Se potessi evocare uno tsunami morale, gli chiederei di spazzare dalle nostre viscere il vittimismo e l’egocentrismo, in virtù dei quali ci riteniamo continuamente vittime di ingiustizie e di complotti, come se il mondo non avesse altro da fare che pensare a noi, salvo poi lamentarci proprio di questo: che il mondo non pensa abbastanza a noi. Ogni tanto bisognerebbe ricordarsi che siamo fatti di fango ma anche di stelle, che siamo cittadini e non sudditi, che la vita dipende in larga misura dalle nostre scelte personali e non da quelle della politica. Che ogni Io fa parte di un Noi e che il Noi non è solo la nostra famiglia, ma le tante comunità a cui decidiamo di aderire. Che se una cosa è pubblica appartiene a tutti, non a nessuno. E che per ogni porta che si chiude c’è sempre una finestra che si sta aprendo da qualche altra parte. A volte basta smettere di piangere e asciugarsi gli occhi per riuscire a vederla.
La Stampa 24.12.10