Si chiude. Giù il sipario. L’opera in Italia è sopravvissuta a invasioni, pestilenze, dittature, incendi e a due guerre mondiali.
Ironia della sorte, la uccide un decretino dal nome ridicolo, «Milleproroghe», approvato ieri. Un regalo di Natale di mille guai. Perché, mentre è prorogata l’elemosina al cinema con gli incentivi fiscali, è stato stralciato dal decreto il reintegro del Fus, il Fondo unico dello spettacolo (e, già che ci siamo, anche il Piano straordinario per Pompei, ma quelli, si sa, sono quattro sassi che interessano a quattro gatti…).
Il Fus scende a 258 milioni di euro, minimo storico, con il quale si deve finanziare tutto lo spettacolo italiano e soprattutto il più italiano degli spettacoli: l’opera. Nel 2011, alle fondazioni liriche andranno 125 milioni di euro. Furono 190 nel 2010 e 222 nel 2009. Come dire: i fondi statali si sono dimezzati in due anni. E adesso per finanziare tutta l’opera italiana c’è la stessa somma che lo Stato francese destina alla sola Opéra, quella di Parigi. Ora si spera in un recupero in sede di conversione del decreto, chissà.
A questo punto si dovrebbe fare il solito discorso e spiegare che il melodramma è una componente fondamentale della nostra identità in patria e del nostro prestigio all’estero, che l’Italia l’ha fatta Cavour ma gli italiani li hanno fatti Rossini, Verdi e Puccini, che stiamo mutilando le celebrazioni dell’Unità della loro colonna sonora e via ribadendo ovvietà a una classe politica (tutta: di destra e di sinistra) che queste cose o non le sa oppure finge di non saperle. Parole al vento.
Aggiungiamo solo due aspetti. Il primo è che i tagli saranno, al solito, indiscriminati. Cioè colpiranno allo stesso modo tutti i teatri, quelli che hanno lavorato bene e quelli che hanno lavorato male (o che non hanno lavorato affatto), i virtuosi e i viziosi, il Regio di Torino che ha 14 mila abbonati con meno della metà dei dipendenti dell’Opera di Roma che di abbonati ne ha 2.500. Secondo: chiunque conosca come funzionano le fondazioni sa che la maggior parte delle spese, dal 50% in su, sono fisse: in altri termini, stipendi. Visto che quelli sono già stati tagliati per decreto, è fatale che la scure si abbatterà sulla produzione.
Con il meraviglioso risultato di avere dei teatri che continueranno a costare molto ma alzeranno il sipario sempre di meno. Come se una fabbrica di mobili spendesse tutto per pagare i dipendenti e non le restasse nulla per comprare il legno. E dire che, quando Sandro Bondi diventò ministro, si tirò un sospiro di sollievo: finalmente qualcuno con il peso politico per trasformare la Cenerentola dei Beni culturali in principessa. E invece non c’è rimasta nemmeno la scarpetta.
La Stampa 23.12.10