La riforma dell’università italiana è indispensabile. È cambiato il mondo rispetto a quando von Humboldt disegnò l’università della società industriale e degli stati nazionali. Con una velocità straordinaria si sono trasformati soprattutto i saperi. È quindi necessario che l’università cambi le modalità della sua organizzazione, trasmissione, produzione.
Questa è la sfida per le istituzioni che hanno il compito di formare le nuove generazioni e le nuove conoscenze. E questa sì che è una sfida epocale. Ma la riforma in discussione in parlamento non ha nulla di epocale.
Per questo molti opinionisti si accontentano dell’unica cosa a questo punto possibile: una piccola riforma della governance (cioè degli organismi di governo) dell’università, che ne riduca i malfunzionamenti più dannosi. Ma siamo sicuri che questo scopo sarà davvero raggiunto dalla legge Gelmini?
Si è cominciato a discutere di questa legge più di due anni fa. Eravamo tutti d’accordo (governo e Partito democratico, parti sociali, Confindustria, attori dell’università…) sui quattro principi che avrebbero dovuto ispirare il nuovo disegno dell’università: autonomia, responsabilità, valutazione e merito. Ma allora ci domandiamo: perché tanto consenso sui principi ispiratori ha prodotto un testo di legge che li contraddice clamorosamente e che dalla Camera è stato persino peggiorato?
La legge in discussione riduce l’autonomia dei singoli atenei, introducendo decine di norme inutilmente burocratiche e centralistiche; compromette l’assunzione di responsabilità delle università e di conseguenza la possibilità di una valutazione e di una selezione dei loro meriti. Inoltre, l’Agenzia incaricata della valutazione (Anvur) è priva di risorse e competenze per esercitare il suo ruolo.
Per quanto riguarda poi la missione dell’università (la ricerca e la formazione delle future generazioni), la legge peggiora le condizioni per il diritto allo studio, riducendo drasticamente le borse di studio, e soprattutto non delineando alcun progetto di welfare studentesco. Anche in questo senso la legge contraddice il quarto principio, il merito, che resta un vuoto proclama. Infatti senza una politica di diritto allo studio non potrà emergere il merito degli studenti meno abbienti. Così come non promuove il merito lasciare 26mila ricercatori senza una seria valutazione e senza alcuno sbocco. E tanto meno escludere i giovani dall’attività di ricerca.
La legge inoltre non sostiene in alcun modo la mobilità degli studenti, garanzia che questi possano coltivare i propri talenti nell’ateneo più adatto e non necessariamente in quello più vicino. È addirittura sconcertante che si favoriscano economicamente gli studenti che scelgono di studiare nella propria regione, mettendo così un freno alla libera circolazione delle persone e delle idee. E promuove forse il merito attribuire crediti ai vincitori di medaglie sportive? Oppure vietare di aprire inutilmente nuovi atenei (e ciò ci sta bene) e contestualmente riconoscere università telematiche di quantomeno dubbio valore?
Ma soprattutto questa legge è privata di risorse per essere applicata. Inoltre sarà approvata dopo una successione di provvedimenti finanziari che negli ultimi tre anni ha tagliato drasticamente gli investimenti per l’università e la ricerca. Nell’insieme i provvedimenti che il governo sta attuando per l’università assumono il significato di una riforma Tremonti, più che di una riforma Gelmini, di un taglio di risorse, più che di un progetto organizzativo e tanto meno culturale. Per questo governo università e ricerca sono un costo e non un investimento.
Stiamo andando pericolosamente nella direzione contraria rispetto a quella degli altri paesi d’Europa. Certo, la crisi economica è di gravità eccezionale. Ma, proprio per questo, anche Francia e Germania (pure con governi di centro-destra) tutto hanno tagliato, ma non formazione e ricerca. Al contrario, hanno investito in modo significativo non “nonostante” la crisi, ma proprio “a causa” della crisi, nella società della conoscenza.
Se proprio non siamo in grado di fare subito una riforma davvero “epocale” dell’università italiana, cosa impedisce al governo di accettare che il parlamento migliori questa legge per adeguarla ai principi fin dall’inizio condivisi da tutti? Un mese potrebbe bastare. La posta in gioco è davvero importante. Ne va del futuro prossimo, anche economico, del nostro paese.
Il Sole 24 Ore 21.12.10
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“Una legge contro l’università.
Riforma Gelmini. Perchè il PD vota no”, di Vittoria Franco
Perché il Pd vota contro la legge Gelmini? La risposta è semplice: perché è una legge che non risponde ai bisogni reali dell’università, non è all’altezza dei cambiamenti necessari. Il risultato sarebbe stato certamente migliore se l’intento fosse stato non la punizione di docenti e rettori – che ha portato a ripristinareun anacronistico centralismo con norme minuziose e prescrittive – bensì la promozione dell’autonomia nella responsabilità, la qualità della didattica, il diritto allo studio: in una parola l’investimento e non il disinvestimento, con la conseguente riduzione delle risorse. Il risultato sarebbe stato diverso se la riforma fosse stata concepita come un’occasione per contribuire a costruire un’Italia più dinamica, più competitiva, più capace di cooperare a quel progetto ambizioso di costruire un’Europa della conoscenza e un’economia fondata sul sapere. Indico qui solo alcune delle criticità legate a questa legge: 1) autonomia e responsabilità avrebbero dovuto costituire il principio cardine e invece, si mortifica l’autonomia e si rende difficile l’esercizio della responsabilità. Servono poche regole e molta sostanza nella pratica dell’autonomia. Lacci e lacciuoli di norme eccessivamente prescrittive rendono invece la vita difficile anche a chi voglia davvero innovare, differenziarsi, per accrescere la qualità; 2) la meritocrazia di cui tanto si vanta il Governo è finta. Noi siamo a favore della selezione in base al merito, perché solo valutando il merito si crea una società più giusta. Ma la meritocrazia deve andare insieme con la costruzione di condizioni di pari opportunità per poter valorizzare i talenti dovunque siano, a prescindere dalla provenienza sociale e familiare. Ma ciò che a oggi abbiamo visto nella legge di stabilità è la riduzione delle borse di studio, che ha giustamente allarmato gli studenti, le famiglie, le Regioni. Il Fondo per il merito non ha una copertura finanziaria, non distingue fra abbienti e non abbienti e finirà per avvantaggiare chi gode già di vantaggi familiari. Non modificherà in niente la scarsissima mobilità sociale. C’è poi una modifica, in virtù della quale si premiano gli studenti che frequentano l’università nella propria Regione. Per accontentare la Lega si introduce il principio della discriminazione territoriale e si dà un colpo alla qualità dell’apprendimento. Si parla di merito e di qualità e poi si premia il Cepu,come se fosse la Bocconi; 3) le risorse sono scarse e non serviranno a finanziare la riforma, tanto che i decreti legislativi che comportino oneri possono essere emanati solo dopo aver reperito le relative risorse: un modo per rinviare alle calende greche nuovi ingressi nelle università. Il reclutamento è bloccato e rimangono tante figure precarie. Insomma, siamo contrari anche perché vengono penalizzati i giovani nello studio e nella ricerca.
L’Unità 22.12.10