Rapporto Bankitalia: forte livello di disuguaglianza. Il valore delle case mantiene l´Italia ai vertici, ma la distribuzione non è certo equilibrata. Più che povero, diseguale, non equo, spaccato in due fra una minoranza che ha tanto e una maggioranza che ha poco. L´Italia è un paese dove il 45 per cento della ricchezza è in mano al 10 per cento delle famiglie. Mentre alla metà più povera delle stesse va il 10 per cento della ricchezza appena. Un divario forte e che non dà segni di ravvicinamento: su questo scalino siamo fermi da anni.
A misurare il gap fra chi vive molto bene e chi no, è la Banca d´Italia, nel suo rapporto «La ricchezza delle famiglie italiane 2009». Va detto che, se rapportati al resto del mondo, siamo in ottima compagnia, apparteniamo «alla parte più ricca, collocandoci nelle prime dieci posizioni tra gli oltre 200 paesi considerati dallo studio». E´ nostro il 5,7 per cento del benessere mondiale, una quota superiore sia a quella sul Pil (il 3 per cento) che a quella sulla popolazione della Terra intera (di cui rappresentiamo l´1 per cento appena).
Anche guardando alle cifre medie non ci si può lamentare: considerata la ricchezza nel suo complesso (immobili, terreni, titoli, depositi e azioni, al netto di indebitamenti e mutui) ogni famiglia italiana può contare su un «capitale» di 350 mila euro, un tesoro legato soprattutto alla grande diffusione delle casa di proprietà. E la crisi ha solo lievemente intaccato questa solidità: secondo le stime, nel primo semestre del 2010 è prevista una riduzione della ricchezza dello 0,3 per cento (dovuta soprattutto ad un calo dei redimenti di Borsa rispetto alla ripresa dello scorso anno).
Ma va detto che la medie sono come il pollo di Trilussa e che nei fatti non c´è ridistribuzione del benessere. Non che gli altri paesi sviluppati facciano molto meglio, a dire il vero, visto che l´Italia – guardando alle classifiche dell´indice di Ghini (che misura la divergenza interna) – «mostra divari piuttosto contenuti». La diseguaglianza, dunque, è un male diffuso e non superato: il nostro indice Ghini è fermo dal 2006 allo 0,613 (dove lo 0 indica la minima concentrazione di ricchezza e l´1 la massima). La società è divisa fra poche grandi famiglie con grandi capitali e una maggioranza che vive facendo molta attenzione ai bilanci di fine mese. E negli ultimi dieci anni è comunque aumentato il numero delle famiglie con ricchezza netta negativa (più debiti che beni) passato dal 2,3 al 3,2 per cento).
Ciò che ci distingue dagli altri paesi è piuttosto il basso tasso di indebitamento familiare: alla fine del 2008 l´ammontare era pari al 78 per cento del reddito disponibile lordo. In Germania e Francia era circa al 100 per cento, negli Stati Uniti e del Giappone al 130.
Cambia, comunque, anche la composizione della ricchezza: nel portafoglio delle famiglie ci sono sempre meno titoli di Stato e più conti di deposito e risparmio postale. Visti i momenti di crisi, segnala la Banca d´Italia, si cerca di restare«liquidi». La fuga da Bot e Bpt e Cct si misura con i 189 miliardi di euro investiti in titoli pubblici nel 2009, contro i 259 del 2008. In rialzo invece il denaro contante (da 95,6 a 102,4 miliardi) i conti correnti in deposito (passati da 432 a 491 miliardi) e le azioni (da 584,4 a 636,6 miliardi). Per chi può permetterselo, l´investimento immobiliare resta comunque fra le opzioni preferite: il 50 per cento della ricchezza delle famiglie italiane è concentrato nel «mattone» e – anche se la loro richiesta sta rallentando – il 41 per cento dei debiti è rappresentato da mutui per l´acquisto di case.
La Repubblica 21.12.10