«Chi parla male pensa male, e vive male», diceva memorabilmente il Nanni Moretti di Palombella rossa; «le parole sono importanti», «bisogna trovare le parole giuste». Lo ha detto anche Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, nel prezioso suo ultimo libretto, Sulla lingua del tempo presente. «La lingua non solo pensa per tutti, ma anche fa pensare collettivamente».
Se vogliamo averne una prova, possiamo trovarla nelle cronache italiane di questi giorni. I giorni angosciosi della scomparsa di Yara, la ragazzina tredicenne di Brembate nel Bergamasco.
I giorni tragici della strage di ciclisti a Lamezia Terme. In quest’ultimo caso il colpevole della strage, il ventunenne Chafik El Ketani, è stato facilmente rintracciato e arrestato. Nel caso della scomparsa di Yara il presunto colpevole di un possibile omicidio, il ventitreenne Mohamed Fikri, è stato rocambolescamente arrestato e poi rilasciato. Ma in entrambi i casi, la designazione mediatica di Chafik e Mohamed è stata identica: «Il marocchino».
L’uso di qualificare i responsabili veri o presunti dell’uno o dell’altro delitto per metonimia, attraverso la menzione della loro nazionalità, è talmente invalso nei nostri media che non ci rendiamo neppure più conto di quanto questa sia un’eccezione italiana. In altri paesi, sarebbe – anzi è – qualcosa d’inconcepibile. Cercate un articolo di cronaca del New Tork Times o di Le Monde il cui titolo suoni come suonano i nostri: «Aperta la caccia all’algerino sospettato di stupro»; «Sospetti sul romeno sparito dal cantiere»; «Gli amici dell’albanese lo difendono: è un bravo ragazzo». Cercatelo: non lo troverete.
All’estero, si rischia di eccedere in senso contrario. In nome del politicamente corretto, si rischia di occultare l’evidenza di una criminalità particolarmente diffusa in certi ambienti, o fra originari di determinati paesi. All’estero, capita di leggere reportage di cronaca giudiziaria senza capire se i personaggi descritti come sospetti o colpevoli vengano dall’una o dall’altra contrada, se abbiano la pelle dell’uno o dell’altro colore.
Ma dovendo scegliere, l’eccesso straniero è largamente preferibile all’eccesso italiano. O meglio: alla vergogna italiana. La vergogna per cui quando il gioco si fa duro non ci sono più, da noi, persone in carne e ossa, ma designazioni collettive. Stigmi etnici. E poi ci scandalizziamo di striscioni come quello esposto in questi giorni a Brembate: «Fuori i marocchini dall’Italia».Fuori – piuttosto – i titoli sui «marocchini» dai giornali italiani.
Il Sole 24 Ore 08.12.10