Per chi guardi la politica italiana con l’interesse del cittadino, ma anche con l’esperienza della memoria, le vicende di questi giorni non suscitano preoccupazioni. La storia repubblicana del nostro Paese, per limitarci a quella, è segnata da ben altre fasi drammatiche, contrassegnate da morti in manifestazioni di piazza, tentativi più o meno velleitari di colpi di Stato, attentati terroristici culminati con il sequestro e l’omicidio di un grande leader, scandali e dimissioni forzate persino di un inquilino del Quirinale. Quello che più colpisce, invece, è l’estrema confusione. Confusione di ruoli, di regole, di confini, di responsabilità, per cui ogni previsione di quanto possa avvenire domani non è resa difficile dalla pluralità delle soluzioni oggi possibili, ma dalla assoluta imprevedibilità dei percorsi che si apriranno per raggiungerle.
In questo clima, anche l’eccitazione verbale dei protagonisti della nostra vita pubblica, come il ricorso al mussoliniano «me ne frego» del coordinatore Pdl, Denis Verdini, più che segnare la temperatura dello scontro politico o il decadimento dell’educazione civile e democratica pare il sintomo del completo sbandamento delle emozioni, alla mercé di avvenimenti senza più un filo logico.
Del resto, basta un collage solo di alcune immagini che si sono susseguite in queste settimane per giustificare lo smarrimento collettivo. C’è un presidente del Consiglio giudicato dalla diplomazia della nazione più potente del mondo (forse ancora per poco) a rischio per il suo eccessivo attivismo notturno. Un presidente della Camera che viene espulso dal partito di cui è stato cofondatore, che ne vara subito un altro, uscendo dalla maggioranza, ma conservando il suo scranno di terza autorità dello Stato. Un leader del maggior partito d’opposizione che scala i tetti col sigaro in bocca. Un ex capo della polizia, ora al vertice dei servizi segreti, che viene accusato nientemeno di complicità con la mafia.
Ecco perché è sbagliato il solito coro di ammonimenti moralistici che puntualmente seguono la solita escalation di insulti, provocazioni, scontri tra vertici istituzionali che si abbatte sulla politica italiana. Sono inutili gli appelli al dialogo, alla moderazione dei toni, al rispetto dell’antico bon ton. Un po’ perché appaiono noiosi e ipocriti, lamenti di vecchi parrucconi che, in realtà, covano furbizie manovriere ed occulte. Soprattutto non colgono, invece, il vero pericolo di questa fase politica che non è l’asprezza dello scontro, ma la difficoltà di trovare il filo d’Arianna per uscire dal labirinto della confusione generalizzata e dell’inazione governativa. Per arrivare a una soluzione di governo che sia in grado di affrontare, con efficacia, la crisi economica internazionale e i suoi pesanti e ancora incerti effetti in Italia.
Osservare rigidamente e persino ossessivamente le procedure, garantire i confini delle responsabilità, assicurare l’effettiva terzietà di quelle istituzioni a cui la Costituzione riserva proprio il compito di dirimere i conflitti, non rappresentano, oggi, scrupoli formalistici e democraticisti, ma i necessari mezzi per poter individuare un percorso utile. Perché solo partendo dal «come» e dal «chi» potremo arrivare al «che cosa».
Le condizioni per diradare la più grande confusione che abbia mai avvolto la nostra Repubblica sono sostanzialmente tre. Accettare che le scelte del capo dello Stato, qualsiasi esse siano, possano dispiacerci, essere anche considerate sbagliate, ma che non costituiscano una manifestazione di faziosità tale da giustificare incitamenti a rivolte di piazza.
E’ consigliabile, poi, dimenticare la funesta distinzione tra «democrazia formale» e «democrazia sostanziale», fonte giustificativa delle peggiori dittature. A questo proposito, è davvero curiosa, tra l’altro, l’inversione delle parti che sta avvenendo in Italia. Nel nostro Paese, infatti, è la destra che fa propri i vecchi canoni marxisti di disprezzo per le procedure della democrazia liberale e rappresentativa, appellandosi alla supremazia della volontà popolare. Mentre è la sinistra che sfiora il bigottismo formalistico per aggirare i dubbi di chi non vuole ignorare, comunque, un verdetto elettorale.
Utile, infine, è ricordare come l’alternarsi delle maggioranze, la loro scomposizione e ricomposizione, il cambio di governi, le decisioni dei parlamentari, anche quelle per un solo voto, non determinano crisi irreversibili, strappi d’epoca, colpi di Stato, rischi per la democrazia. Ma indicano, anzi, che la nostra democrazia funziona, è solida e manifesta la sua normale fisiologia. Le tragedie, in Italia, sono altre.
La Stampa 05.12.10