La decisione maturata ieri a sorpresa di chiudere la Camera fino al 13 dicembre, data di inizio del dibattito sulla sfiducia, dà purtroppo la misura della gravità a cui è giunta la crisi politica. Una crisi che si trascina da settimane e negli ultimi giorni ha visto il Parlamento trasformato in campo di guerriglia, neppure di guerra, in cui la regola sono trappole e agguati, e l’eccezione, piuttosto, la normale discussione e approvazione delle leggi che il Paese s’aspetta dai propri onorevoli.
Ma evidentemente il livello di guardia già superato varie volte nelle ultime sedute – e oltre il quale, va detto, c’è solo il degrado delle istituzioni – rischiava di essere travolto anche nelle prossime. Di qui, a male estremo, l’estremo rimedio adottato dalla (ex) maggioranza di centrodestra, con l’appoggio imprevisto dei finiani – i più impegnati di recente nelle avventurose scorribande tra i banchi di Montecitorio -, e tra le proteste delle opposizioni.
Una parte delle quali, l’Udc di Casini, che solo qualche giorno fa aveva proposto un armistizio, ha annunciato ieri stesso la presentazione di un’altra mozione di sfiducia, che si affiancherà a quella del centrosinistra, e presto, si sa già, sarà seguita da una terza di Fini e Lombardo.
Si dirà che un’accelerata come questa rischia di chiudere le ultime esili linee di collegamento tra gli spezzoni separati del centrodestra, ma per inaudita che possa apparire, è la logica reazione alla campagna acquisti praticata spavaldamente, e apertamente, da Berlusconi, che già si sentiva al sicuro e aveva dichiarato di aver messo in cassaforte i voti necessari a battere la sfiducia alla Camera. La prossima presentazione delle mozioni, con le firme dei parlamentari sui documenti, chiuderà formalmente il calciomercato costringendo gli eventuali transfughi a venire allo scoperto.
Non è un mistero infatti che nell’approssimarsi della resa dei conti, sia all’interno del Fli, il neonato gruppo finiano, sia nell’Udc, le divisioni tra falchi e colombe si fossero fatte sentire anche all’esterno. E agli incerti, ma non ancora disposti ad abbandonare i propri gruppi, il Cavaliere aveva fatto sapere che si sarebbe accontentato anche delle assenze: per ricavarne, con un abbassamento del quorum, il raggiungimento della maggioranza in aula ed evitare le dimissioni, pur restando a capo di un governo di minoranza incapace di superare la fatidica quota 316, la metà più uno dei membri della Camera. E’ stata proprio questa espressa intenzione del Cavaliere, di aggirare un vero chiarimento politico con Fini e Casini, e puntare a una maggioranza numerica e raccogliticcia pur di umiliarli, in attesa di sfidarli nelle urne, a provocare l’anticipo delle mozioni di sfiducia e l’anomala chiusura della Camera.
Fin qui, però, nessuno degli avversari in campo ha prevalso. Berlusconi per la seconda volta, dopo settembre, ha dovuto prendere atto che neppure uno come lui può comperarsi una maggioranza. Quanto a Fini e Casini, hanno dovuto rassegnarsi al fatto che far dimettere il Cavaliere non era così facile come pensavano. Ma paradossalmente, adesso, questa specie di azzeramento maturato dopo una serie infinita di colpi bassi può diventare, o ridiventare, la base di quella trattativa che finora s’è rivelata impossibile.
E’ inutile negarlo: al punto in cui sono giunte le cose, è davvero arduo scommettere su un ripensamento di leader come Berlusconi e Fini, che nel fuoco di uno scontro personale sembrano aver smarrito da tempo le ragioni della politica. Ed è quasi certamente destinata a rivelarsi un’illusione l’idea che, dopo aver perseguito con un tale accanimento l’eliminazione ciascuno dell’altro, ci ripensino e si accorgano di essersi cacciati in un vicolo cieco. Eppure chissà perché, a guardare i due duellanti stanchi, a fine corsa, seduti uno di fonte all’altro con le pistole posate sul tavolo, viene da pensare che è più facile che se le rimettano in tasca, che non che premano il grilletto.
La Stampa 02.12.10