Non c´è un elemento politico e culturale unificante nelle proteste per i rifiuti che infiammano il Sud e nella rivolta degli studenti che entrano nel Colosseo, per far viaggiare attraverso Internet l´immagine della loro ribellione in tutto il mondo. Non c´è nemmeno uno schema politico d´opposizione organizzata, nonostante l´accorrere di tanti leader sui tetti della protesta, diventati il vero luogo politico provvisorio della contestazione al governo. C´è però qualcosa di più, che si sta raccogliendo in tutto il Paese per scaricarsi nel Palazzo: la sensazione che il sentimento politico degli italiani stia cambiando.
Ci avevano detto che c´era solo il popolo, in dialogo diretto e permanente con il leader: ed ecco che tornano i cittadini. L´irruzione degli attori sociali sulla scena rompe la solitudine del calcolo politico, che rischia di parlare solo a se stesso, con le idee e le persone ridotte a numeri, senza dare le risposte che la parte del Paese in movimento si aspetta, anzi ormai pretende. Indebolita per mesi e mesi dalla crisi economica e finanziaria mondiale, e adesso spaventata dai possibili effetti della tempesta irlandese, l´Italia è stata fino ad oggi un Paese molto responsabile, che ha accettato tagli e riduzioni rimodellandosi ogni volta su misure inferiori e impoverite.
Soprattutto nel campo culturale, sanitario, scolastico, e cioè in quel moderno perimetro di un welfare europeo allargato, che per la destra al governo sembra l´unica rendita attaccabile in tempi di difficoltà e ridimensionamento.
In questo senso, possiamo dire che il Paese ha condiviso la crisi e ha riconosciuto autonomia al governo nel decidere le contromisure, facendosene carico in silenzio fin qui.
C´è però un limite alla delega passiva, alla compressione sociale, alla riduzione degli spazi culturali, al carico di tagli e tassazione su scuola pubblica e università: tutto ciò, insomma, «che non si mangia», come ha allegramente spiegato un ministro, illustrando alla perfezione la gerarchia gastrica di questo governo. Ad un certo punto la scelta di scaricare la crisi sul sociale, sul welfare e sulla cultura cambia di misura, diventa un´ideologia, come tale viene riconosciuta, e produce una reazione. Meglio ancora, produce politica, perché rapidamente quella reazione diventa una risposta politica, che si inventa spazi, riti, soggetti e linguaggi. E soprattutto, si manifesta in luoghi simbolici ma imprendibili e diffusi ovunque nella quotidianità del Paese, come i tetti, e dai tetti si sporge verso il Palazzo, sul quale pesa una crisi di governo conclamata, sospesa e rimandata a data destinata, dunque incapace di produrre qualsiasi effetto politico comprensibile e concreto.
La raffigurazione dei due momenti contrapposti della politica italiana di oggi – quello ufficiale, quello sociale – è dirompente. L´attore sociale chiede conto all´attore politico di come ha speso tempo e atti di governo per rispondere alla crisi, che sta toccando con mano. Chiede ragione della selezione sociale che diventa esplicita ed evidente. Chiede il perché delle bugie raccontate a Napoli e dintorni sul miracolismo dei rifiuti, in due anni di visite propagandistiche, con svincolo a Casoria.
La politica non sa rispondere. Anzi, è bastato questo movimento spontaneo nella società per mettere in mora la miserabile compravendita di parlamentari in corso in questi giorni, come se i problemi del Paese si risolvessero con il portamonete e il pallottoliere. Così, la compravendita mostra tutta la nudità di una politica che si riduce alla sopravvivenza extracorporea perché non sa giustificarsi e legittimarsi altrimenti. Anzi, la compravendita proclama la negazione della politica, perché va in scena quando la politica è già finita, e tutto diventa artificiale.
Può pensare il Presidente del Consiglio non di galleggiare, ma di rispondere ai problemi che il Paese ha di fronte a sé con due o tre voti in più, ammesso che li trovi? E soprattutto, non vede il prosciugamento definitivo di valori, progetti, strategie, se tutta la spinta propulsiva della vittoria elettorale di due anni fa finisce per inaridirsi e immiserirsi nel fissare il prezzo di un´astensione, il vitalizio per un cambio di bandiera?
La rottura traumatica della maggioranza è un fatto politico di tutto rilievo. Un leader deve dare una risposta altrettanto politica davanti al Paese, non mercantile e nemmeno di sopravvivenza in carica personale. E la risposta deve partire prima di tutto da un´assunzione di responsabilità, perché il governo ha il dovere di definire la crisi economico-finanziaria, di dare finalmente un nome alla fase che stiamo vivendo, indicando posizione e ruolo dell´Italia, illustrando i punti di tenuta e le fragilità del nostro Paese, e a quel punto decidendo le politiche che ne conseguono. Ma questa assunzione di responsabilità – che in democrazia è un dovere dei governanti – fino ad oggi è mancata.
Le opposizioni dovrebbero capire che questo è un ottimo momento per la politica. Come dice il Presidente della Repubblica, di fronte ai rischi a cui è oggi esposto un Paese fragile c´è bisogno di stabilità. Ma dove va cercata questa stabilità? È la stabilità del sistema Paese che conta, la sua tenuta interna ed esterna, la qualità della sua democrazia. Mentre questo quadro politico disastrato è un elemento di fragilità, non di forza, come dimostra l´incapacità persino di arbitrare i conflitti al suo interno. Si deve avere il coraggio di dire che una cultura politica, quella del populismo berlusconiano che radicalizza a destra il Paese, è al suo esaurimento, anche perché non è in grado di dare risposte ai soggetti sociali – potremmo dire ai cittadini -, abituata com´è a parlare al «popolo» indistinto, e inteso come pura fonte di potere e di comando.
Dunque, questa cultura politica può essere sfidata: in parlamento con la sfiducia, e anche con il tentativo di raccogliere le forze disponibili in una maggioranza di responsabilità repubblicana, se così vogliono le Camere. E in ogni caso questa cultura può essere sfidata pubblicamente davanti ai cittadini, nel voto. E può essere battuta, dopo che si è già rivelata improduttiva. Non bisogna aver paura della democrazia e dei suoi passaggi, né dal centro, né da destra né da sinistra, soprattutto quando un´altra idea d´Italia è possibile.
La Repubblica 26.11.10