A riascoltarla adesso, la Grande promessa di semplificazione che ha inaugurato la legislatura suona come un Grande imbroglio. Sono trascorsi due anni, sembrano due secoli. Nel 2008 s’unirono in matrimonio antiche tradizioni politiche, giurandosi fedeltà in eterno. A sinistra gli eredi della Democrazia cristiana e del Partito comunista battezzarono il Partito democratico, a destra Forza Italia e Alleanza nazionale si sciolsero nel Popolo della libertà. La soglia di sbarramento completò il lavoro, cacciando dal Parlamento la destra estrema e la sinistra radicale.
Uscì di scena la carovana delle microliste personali, quelle di Dini o di Mastella, e poi i verdi, i gialli, gli arcobaleni. Dagli 11 partiti che cingevano d’assedio il governo Prodi siamo passati a un esecutivo bicolore (Pdl-Lega), mentre a Montecitorio prendevano posto 6 gruppi parlamentari in tutto, compreso il gruppo misto.
Ma la politica italiana ha un debole per il gioco dell’oca: ritorna sempre alla stazione di partenza. I co-fondatori dei due partiti principali (Fini di qua, Rutelli di là) hanno divorziato già durante il viaggio di nozze, e nel frattempo si sono affacciate alla ribalta nuove formazioni, partito del Sud contro il partito del Nord, l’antipolitica di Grillo contro la politica ufficiale, polo di centro contro i poli terrestri. C’è un’esigenza, c’è una domanda sociale che alleva la scomposizione del quadro politico? Può anche darsi, giacché ormai l’Italia è frastagliata in lobby, sindacati, categorie professionali dove trionfano soltanto gli egoismi collettivi. Ma sta di fatto che in quest’agonia della seconda Repubblica la classe politica si sta rivelando ben peggiore della società civile, come ha osservato Montezemolo e come osservano in coro gli italiani. Le scissioni, le riaggregazioni, le nuove creature non puntano a riflettere una geografia sociale in movimento; servono piuttosto a procurare un posto in prima fila agli oligarchi di partito che stavano un po’ stretti nei loro vecchi condomini. Da qui l’inflazione delle sigle; ma le facce no, quelle sono sempre uguali. Queste facce ci hanno regalato un tasso di crescita dello 0,2%, il più basso fra i Paesi Ocse. Ci hanno regalato inoltre lo sfascio della nostra cittadella pubblica, dalla giustizia alla sanità, dal fisco alla scuola. Siccome non gli basta, stanno per regalarci il terzo scioglimento delle Camere nell’arco d’un quinquennio. Come reagirà l’elettorato? Per una volta, tutti i sondaggi sono convergenti: il partito del non voto (che alle scorse regionali ha toccato il 40%, sommando all’astensione le schede bianche e nulle) continua a gonfiarsi come un panettone. Viceversa il Pdl perde da 7 a 11 punti percentuali, il Pd frana a sua volta (da 8 a 10 punti in meno). Guadagna qualcosa la Lega, guadagnano Casini, Vendola, Di Pietro. Ma il menu che assaggeremo molto presto avrà il sapore d’una marmellata elettorale, dove il pezzo più grosso è soltanto il meno piccolo.
E tuttavia, attenzione: la marmellata contiene un paio di frutti velenosi. Colpa dello chef che ha cucinato le regole del voto, definendole lui stesso una «porcata». Del primo frutto abbiamo già fatto indigestione: è la regola che converte gli eletti in nominati, e che ha immediatamente intossicato la nostra vita pubblica, svilendo il prestigio delle assemblee legislative. Quanto al secondo, fin qui non ce ne siamo troppo accorti. Però a certe condizioni diventa l’ingrediente più letale, non basta una lavanda gastrica per venirne fuori indenni. Quest’altro frutto si chiama premio di maggioranza; le condizioni che lo rendono mortale dipendono per l’appunto dalla marmellata elettorale; i suoi effetti possono stroncare l’esile corpo della democrazia italiana. Come mai potrebbe sopravvivere, se la trasformazione del nostro voto in seggi diventa una rapina a mano armata? Se un partito del 25% s’accaparra il 55% delle poltrone in Parlamento? Se a quel punto nessun governo ha più l’autorità per governare?
Da qui l’urgenza di sbarazzarci di questa legge elettorale, prima che la legge si sbarazzi della nostra democrazia. Ma la politica, di nuovo, fa il gioco dell’oca. Il Pd è d’accordo sull’urgenza, e infatti chiede un governo tecnico per cambiare sistema elettorale; così offrendo al Pdl una buona ragione per opporsi al cambiamento, perché il governo tecnico rovescerebbe il risultato delle urne. Ma dopotutto è sempre la stessa tiritera, i nostri mandarini non stanno litigando sulle regole, bisticciano sui posti di governo, su una sistemazione per le loro auguste chiappe. C’è allora un lodo da proporre a questi carissimi nemici: Berlusconi continui a governare, il Parlamento modifichi la legge elettorale. Servirà una maggioranza diversa da quella che sostiene l’esecutivo in carica? Non è un delitto, è la normalità costituzionale. Il delitto è quello che altrimenti ci verrà servito in tavola alle prossime elezioni.
La Stampa 26.11.10