Nessuno ancora è disposto a dirlo a voce alta, ma è chiaro lo stesso: la crisi di governo è finita prima di cominciare, anche se le turbolenze del caso Carfagna vengono a ricordarci quanto provvisoria sia la sopravvivenza del governo. A meno di un mese dall’appuntamento alle Camere il 14 dicembre, Berlusconi, non si sa come, ha di nuovo la maggioranza e Fini è libero di decidere se tornare all’ovile o andare all’opposizione con la sua pattuglia di temerari. La cosa più incredibile è che, a cominciare da Berlusconi, non c’è chi sia in grado di dare una spiegazione razionale, politica, di come la rottura più sanguinosa mai vissuta nel centrodestra dalla sua nascita all’improvviso sia rientrata.
E non perché, diversamente da settembre, il «calciomercato» dei deputati incerti abbia sortito risultati migliori. Semplicemente, per averla vinta, a Berlusconi è bastato resistere, forzare la liturgia istituzionale che avrebbe richiesto le sue dimissioni due settimane fa, al solo annuncio dell’uscita dal governo della delegazione di Futuro e libertà, e far capire che, pur ridotto come è ridotto, lui è un osso più duro di come se lo immaginavano i finiani e l’opposizione.
La crisi di governo è finita per questo: perché anche prima che gli ambasciatori berlusconiani, rischiando di fare la solita confusione, dessero il via alla compravendita dei «sì» per il voto a rischio del 14 dicembre, la fila degli onorevoli disposti a concedersi gratuitamente, anche solo per evitare di perdere il seggio, s’è allungata dietro la porta del presidente del Consiglio. Uno dopo l’altro, si sono fatti vivi i componenti del gruppo misto quasi al completo. Più sommessamente, in tono quasi supplichevole, e sperando alla fine di non essere costrette alla conta, le cosiddette colombe finiane hanno dato un colpo al cerchio del loro leader e un altro alla botte del presidente del Consiglio. A un certo punto è comparso anche Pannella, con i suoi sei deputati alla Camera, cercando di intavolare un «dialogo costruttivo». Poi, di ora in ora, ha cominciato a ingrossarsi la fila dei singoli obiettori di coscienza.
Se Berlusconi davvero puntava alle elezioni, e se non vorrà, su suggerimento di Bossi, fare come il Fanfani d’antan che si dimise egualmente malgrado la fiducia ritrovata, non potrà che prendere atto che la situazione è mutata e gli tocca continuare a governare. Ma se veramente, a meno di colpi di scena (e tra le scosse d’assestamento, significativo ieri è stato l’endorsement del ministro Maroni a Tremonti come futuro premier) di qui al 14 dicembre, questa sarà la conclusione di una delle crisi più pazze della storia repubblicana, fin d’ora se ne possono ricavare alcune non trascurabili conclusioni. La prima non è una novità: è il fattore «c», la fortuna innata, chiamiamola così, di Berlusconi, anche in questo avanti di un bel po’ a Prodi, che pure ne menava vanto. Ciò che ha tolto il sonno all’intera Europa, la recrudescenza della crisi economica, con l’area euro messa a rischio dal precipitare di Paesi come Irlanda, Portogallo e presto, sembra purtroppo, anche Spagna, per il Cavaliere s’è trasformato in atout. Il solo rischio che un’Italia sgovernata, e proiettata verso elezioni incerte più di altre volte, potesse essere contagiata in modo grave dal virus irlandese, ha di colpo modificato tutte le riflessioni sulla partita elettorale, a cominciare da quelle del Capo dello Stato, già contrario, ma che s’è esposto pubblicamente ed esplicitamente per spingere tutti verso un atteggiamento più responsabile.
Il videomessaggio e il ripensamento di Fini di giovedì sono nati così. La seconda è più che altro una constatazione: non è stato né affrontato né risolto nessuno dei problemi alla base della crisi, dai rapporti personali tra Berlusconi e Fini a quelli politici tra i loro due partiti, al riequilibrio necessario, dopo la nascita e il riconoscimento di Futuro e libertà come terza gamba della coalizione di centrodestra, dell’asse Pdl-Lega, a una comune visione di tutti i punti del programma su cui esiste dissenso, vedi legalità, immigrazione, sicurezza, Sud, pubblica istruzione, giustizia, oltre ovviamente al punto dolente per eccellenza del controverso salvataggio di Berlusconi dai suoi problemi giudiziari. Al momento, non è manco chiaro se alla fine del percorso i finiani, tutti o in parte, resteranno membri della coalizione, o se la maggioranza assumerà una diversa connotazione, con l’asse B-B al suo centro e una miriade di piccoli partiti satelliti, o anche singoli parlamentari, reclutati per la bisogna.
La terza conclusione è conseguenza delle altre due: se non sceglierà di incassare la fiducia come provvisoria salvezza, in attesa di andare egualmente alle elezioni un altr’anno, Berlusconi si troverà a governare, nel momento in cui le scelte di governo diventeranno più difficili, con una maggioranza numerica e politicamente ectoplasmica, costruita su conversioni personali e convergenze trasformistiche, che lui magari cercherà di strutturare alla meglio, e alla sua maniera, in un nuovo partito, di cui si sente dire che sta già cercando nome e simbolo per rottamare il Pdl. Non è un gran risultato. E se a crisi finita si potrà dire che Fini ha voluto scherzare con il fuoco ed è rimasto bruciato, è evidente che, se le cose non cambiano, Berlusconi avrà vinto anche stavolta, ma rimane seduto su un vulcano.
La Stampa 20.11.10