C’è del marcio in Lombardia: ecco perché il titolare del Viminale si scaglia contro il programma di Fazio.
Una sfuriata in piena regola. La nottata non ha calmato il ministro dell’interno, Roberto Maroni, che in mattinata ha caricato a testa bassa Roberto Saviano, reo di aver raccontato la sera prima a nove milioni di telespettatori la “connection” fra ‘ndrangheta lombarda e amministratori leghisti. Per il capo del Viminale, il monologo dello scrittore casertano a Vieni via con me si fonderebbe su «accuse false e infamanti, animate da un evidente pregiudizio nei confronti della Lega». E la Rai, mandandolo in onda, si sarebbe comportata «come un tribunale d’inquisizione». Ma le parole che più evidenziano il rabbioso stato d’animo del ministro leghista sono quelle che chiudono la lettera di protesta indirizzata al cda di viale Mazzini: «Vorrei un faccia a faccia con lui per vedere se ha il coraggio di dire quelle cose guardandomi negli occhi». Un atteggiamento sopra le righe, che ha stupito in primis lo stesso Saviano. Lo scrittore è caduto dalle nuvole, ricordando di essersi solamente limitato a raccontare fatti già noti, frutto di un’inchiesta giudiziaria dell’Antimafia di Milano e Reggio Calabria. Ma Maroni non ne ha voluto sapere, dicendosi pronto a chiamare in causa il presidente Napolitano pur di avere un contraddittorio. Intanto, un primo risultato lo ha ottenuto: oggi il cda Rai si occuperà della questione ed è probabile, viste le prese di posizione dei consiglieri di maggioranza, che qualche decisione verrà presa.
Tuttavia l’isterica reazione del ministro mostra come Saviano abbia toccato un nervo scoperto del movimento leghista. E cioè la consapevolezza che la repentina crescita elettorale degli ultimi due anni abbia portato nel partito di Bossi del personale politico non all’altezza e, nel peggiore dei casi, con frequentazioni tutt’altro che cristalline. Lo dimostra il misterioso caso Ciocca. È la nottata elettorale del 30 marzo 2010, e a via Bellerio sono tutti sorpresi per l’incredibile affermazione di uno sconosciuto assessore provinciale di Pavia. Angelo Ciocca fa il pieno di voti, diventando il consigliere regionale lombardo più votato della Lega: quasi 19mila voti, cinquemila in più di pezzi grossi del calibro di Renzo Bossi e Davide Boni. Un risultato stupefacente, che lo lancia a pieno titolo nel firmamento leghista. Ma la stella si eclissa qualche mese dopo, quando Ciocca finisce nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Lombardia. Pur non essendo indagato, spunta fuori una foto in cui incontra Pino Neri, presunto boss pavese. Un incontro in cui, secondo gli inquirenti, si sarebbe discusso, fra l’altro, della candidatura di un uomo vicino a Neri. Il caso Ciocca esplode subito, con diversi esponenti leghisti che consigliano un passo indietro al giovane collega. Ma misteriosamente per Ciocca si spende in prima persona tutta la famiglia Bossi, Umberto e Renzo, in nome di un garantismo che certo non fa parte della cultura leghista. Sta di fatto che Ciocca si salva, e oggi continua tranquillamente a rappresentare la Lega al Pirellone. Cosa che non sconvolge, però, un esperto di ‘ndrangheta come Enzo Ciconte, secondo cui la Lega ormai preferisce convivere con la criminalità, proprio «come ha fatto per anni la vecchia Dc in Sicilia».
La “convivenza” però ha un effetto dirompente, se a scoprirla sono nove milioni di italiani. E Maroni sa bene che una storia come questa politicamente fa male tre volte: alla Lega, che s’è sempre spacciata per unica paladina capace di difendere la sua gente; all’esecutivo, la cui lotta alle mafie è l’unico fiore all’occhiello di due anni e mezzo di governo; allo stesso ministro, che sa di essere un papabile per un eventuale esecutivo post-Berlusconi.
Quindi meglio sviare l’attenzione, alzare i toni e prendersela con Saviano.
da Europa Quotidiano 17.11.10