Non sappiamo come pensasse di sopravvivere l’indigeno dell’ultima tribù dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero dell’ultima foresta, base stessa della propria sussistenza. Ma ci sono molte possibilità che questa sia anche la condizione degli uomini moderni sul pianeta. Mentre, probabilmente, ci sarebbe una soluzione unitaria che potrebbe risolvere l’attuale crisi ambientale e economica nello stesso tempo. E mentre l’ecologia potrebbe fornire una via d’uscita, purché si prendesse atto seriamente della situazione.
I sistemi economici moderni non producono e distribuiscono beni, come avveniva nelle società primitive, ma accumulano un capitale economico che – fondandosi su quello naturale – non può crescere in maniera indefinita. Chi sostiene che l’economia viene prima dell’ambiente dovrebbe ricordare che qualsiasi sistema economico è un sottosistema della biosfera, che è sempre esistita anche senza l’economia, mentre è impossibile che avvenga il contrario.
Tutto sta a convincersi che la natura non è una produzione dell’uomo e che senza un ambiente in buona salute non ci sarà nessuna attività produttiva, almeno non su questo pianeta. L’obiettivo è molto chiaro: ridurre le quantità di energia utilizzata e stabilizzare i consumi di materie prime al minimo, aumentando l’efficienza organizzativa e sociale. In alcune realtà economiche già avviene, perché risparmiare combustibili fossili è ormai più conveniente che acquistarli. Du Pont ha aumentato la sua produttività del 30% negli ultimi dieci anni riducendo del 7% il consumo di energia e del 72% (!) le emissioni di gas-serra, mentre Ibm e Bayer hanno risparmiato oltre due miliardi di dollari abbassando le emissioni del 60%.
Prima o poi si faranno affari sulla mitigazione del cambiamento climatico, e forse allora si darà inizio alla ristrutturazione ecologica del pianeta. Ma questa tendenza va agevolata, come hanno ben compreso il presidente eletto Obama e l’intera Unione Europea, che stanno per varare nuove direttive sull’efficienza energetica degli edifici. Purtroppo l’Italia si pone oggettivamente fuori del contesto internazionale, in una posizione ancora più isolata anche rispetto alle recenti prese di posizione sugli obiettivi del protocollo di Kyoto. Il nostro patrimonio edilizio, per esempio, è il più energivoro d’Europa e negli edifici residenziali utilizza il doppio dell’energia usata nei migliori paesi europei (150 kJ/m2 contro 65-75 kJ/m2). Ma non sembra un fatto positivo se il cittadino virtuoso, che avrebbe contribuito a tagliare le nostre emissioni clima-alteranti, vede aumentare il proprio carico fiscale, invece che diminuire la propria bolletta.
Il provvedimento che taglia le agevolazioni è contro il buon senso, perché mantiene sommerso quel mondo, diminuendo il gettito per le casse dello Stato, ed è un freno a quella media e piccola imprenditoria che sul rinnovabile aveva già cominciato faticosamente a investire, magari riconvertendo attività pregresse più inquinanti.
Invece dei bonus una tantum, il finanziamento degli interventi sul risparmio energetico consente un taglio più significativo e duraturo sui costi e sui consumi energetici. E i benefici economici sono molti: per lo 0,1% del Pil al 2020, l’adeguamento dell’Italia alle direttive comunitarie riduce l’importazione di combustibili fossili (risparmio di 12,3 milioni di euro), i costi del controllo emissioni (-1,5 milioni), le malattie e fa crescere i posti di lavoro (+0,3%). Riduzione dell’inquinamento e economia possono andare di pari passo anche in Italia, basterebbe volerlo.
La Stampa del 9.12.2008