Hans Magnus Enzensberger, lei ha investito in azioni?
«No, non mi piacciono. È un gioco che mi annoia. Anche le sale da gioco mi interessano poco. Non ci resisto a lungo e quando ci vado perdo tutti i soldi il più presto possibile soltanto per potermene andare via prima. La Borsa è un po’ come un grande casinò, se osservata dal punto di vista dei giocatori – non di certo dalla prospettiva delle banche».
Lei è nato nel 1929, l’11 novembre. Due settimane dopo il venerdì nero di Wall Street. Alla fine della seconda guerra mondiale aveva 16 anni. La generazione a cui appartiene conosce il caos. Quel che sta accadendo la rende diffidente?
«Beh, ma essere diffidenti va bene. Chi in questo periodo è stato scettico se l’è cavata alla grande. Adesso le banche ci supplicano “Per favore, abbiate fiducia in noi!”. Tutta questa crisi finanziaria non è stata provocata di certo da una carenza di fiducia, quanto piuttosto da una quasi commovente ingenuità. Chi ha avuto fiducia nel proprio consulente finanziario ora è povero».
La sorprende vedere quanto rapida, profonda e drammatica sia questa crisi?
«Più che altro mi stupisce vedere quanto le persone siano choccate da questa crisi. È curioso vedere questa fantastica perdita di memoria! Chi conosce un po’ la storia dell’economia – e un pizzico di marxismo non guasta – sa quale ne sia il funzionamento da almeno 200 anni. John Law nel 1720 ha provocato una enorme bolla con le azioni della sua Mississippi Company. La Francia allora ha schivato per poco la bancarotta. E la storia si è ripetuta nei secoli. La lista è lunga: Messico, Asia, Argentina, Giappone. Già tutto dimenticato?».
Una magra consolazione.
«Questa dinamica è parte del sistema operativo del capitalismo, fatto di cicli di boom e di crash, di esaltazione e di panico. Fino a poco tempo fa dominava l’avidità, ora regna la paura. Nessuno sa quanto durerà. Non ci troviamo di fronte a un fallimento morale dei banchieri. È un po’ troppo pretendere che debbano essere proprio i banchieri i guardiani della morale».
Non è che siamo arrivati alla fine del capitalismo? Sul tavolo ci sono privatizzazioni di banche, all’improvviso gli Stati fanno i soccorritori.
«È sempre stato così. New Deal, keynesismo, programmi congiunturali… Da una parte lo Stato è il rivale, dall’altra il salvatore. Anche questo è un ciclo».
Rispetto alla malattia che si è presa ora l’economia, le crisi precedenti appaiono come un leggero raffreddore.
«Le crisi precedenti erano limitate a poche regioni. La dimensione della crisi attuale è globale. Questa è la cattiva notizia. Ma il sistema ha imparato dal passato. Nel 1929 i governi erano come paralizzati. Il G7 non c’era e neanche il Fondo monetario internazionale. Questa è, per così dire, la buona notizia».
Ma la crisi attuale ha annientato quantità enormi di capitali.
«Non ne sono così certo. Questo capitale, in realtà, non è mai esistito. Era soltanto fittizio, proprio come un assegno non coperto».
Proviamo a chiedere all’Enzensberger ex marxista che cosa pensa oggi del capitalismo. È arrivato alla fine? Siamo in una situazione pre-rivoluzionaria?
«Perché ex marxista? Nella mia cassetta degli attrezzi trovo sempre questa o quella leva proveniente dall’officina del signor Marx che mi sembra ancora utilizzabile. Ho difficoltà soltanto con il famoso “soggetto rivoluzionario”. Nelle piazze e per le strade delle città non se ne trova traccia. Solo i media sembrano crederci, ma del resto a loro servono titoli sparati in prima pagina. E il titolo migliore è l’apocalisse: rovina, cambio epocale. In questi casi ai giornalisti ribolle il sangue».
Forse anche ai marxisti. Come dice Marx, se la miseria aumenta si arriva al tracollo. «Ma siamo ben lontani da questa situazione. Nessuno sa cosa accadrà. L’unica cosa certa è che le spese umane saranno molto alte. Molti dovranno pagare e questo sarà spiacevole certo, ma è sempre stato così e fino ad ora questo mostro proteiforme che chiamiamo capitalismo si è sempre risollevato da terra. Perché ha una capacità di imparare e adattarsi incredibile, e perché non ci sono alternative in vista».
Lei stesso un tempo ha creduto in un’alternativa.
«Sono piuttosto negato nelle faccende di fede. Posso dire che è emerso che il capitalismo si sposa bene con tutto, con la democrazia come con la dittatura, con il fascismo o con un partito cinese che si definisce comunista. A quanto pare, la riproduzione del capitalismo è del tutto indifferente al regime politico. E per quanto riguarda le sue periodiche crisi, beh se non ci fossero state questo sistema economico non avrebbe mai imparato e non si sarebbe evoluto. Sarebbe passato alla storia da tempo, come il sistema economico dell’Unione Sovietica.
«Chi ha visto con i propri occhi come sta una società che è veramente a terra sa che cosa significa: miseria, fame, declassamento sociale. La gente è scandalizzata se la crescita economica scende sotto lo zero, quasi si stesse avvicinando la fine del mondo. È chiaro che non si vuole sapere come funziona il capitalismo».
Quand’è che lei lo ha capito?
«Credo dopo la guerra, al mercato nero. Come molti altri, facevo affari con sigarette, pane, burro e con le armi dei nazisti che gli americani volevano avere come trofeo. Ma come potenziale carriera o stile di vita mi sembrava davvero poca cosa e così ho detto addio a questo tipo di attività. Stando ai criteri di allora, per un certo periodo sono stato decisamente ricco ed ero sulla buona strada per poter diventare milionario. Ma non avevo voglia di passare la mia vita come una sorta di Paperon de’ Paperoni. Il denaro è bello, ma è anche un po’ noiosetto».
Da un punto di vista politico questo momento potrebbe essere un’occasione per una rinascita della sinistra.
«Quale? Quella di Lafontaine? Di Chávez? Di Raúl Castro? A ogni crisi riecheggiano le solite profezie, “ora è davvero la fine”. Io però credo che la festa non sia per niente finita».
Le tendopoli in Nevada o in California preparate per le tante persone che hanno perso la casa fanno pensare a Furore, il romanzo di John Steinbeck, e agli Anni Trenta.
«Si pensa sempre alla rivoluzione mondiale perché è più interessante dell’eterna mediocrità. Ma non c’è una taglia più piccola? In questo momento è il populismo a essere più vicino allo stato delle cose. Per il populismo questo momento è un’occasione formidabile».
C’è stato un periodo in cui anche lei ha sognato un cambiamento radicale.
«Chi non lo ha sognato fa venire tristezza. Non è un caso se non c’è un solo partito che non porti su ogni pagina del proprio programma il riferimento alla giustizia sociale. Nessuno sa di che cosa si tratti esattamente, ma l’idea che una cosa simile possa esistere non muore mai, anche se nella storia millenaria dell’umanità non c’è mai stato niente di simile. E nonostante tutti sappiano che al mondo ci sono molte ingiustizie. A cominciare dal fatto che uno nasce bello e un altro invece brutto, oppure che c’è chi è sano e chi invece è malato. È un tratto bello della nostra specie, il fatto che non si vuole rassegnare all’ingiustizia. Anche se poi ogni falso profeta cerca di sfruttare questi nostri sogni».
© Der Spiegel, da La Stampa.it