La crisi economica globale del 2007-09 ha reso a tutti noi un cattivo servizio in più modi rispetto a quelli ovvi, e cioè aver provocato l’aumento della disoccupazione, la caduta degli standard di vita e aver accresciuto il senso di insicurezza. Ha offuscato la comprensione popolare di cosa si intende per economia avanzata e di quali siano le migliori fonti di futura prosperità. Questo danno è evidente, mi pare, soprattutto nel dibattito italiano. Il segno più eclatante è il rinnovato feticismo per la produzione, il culto del «Made in Italy». E’ importante prenderlo in considerazione perché rischia di distorcere le politiche pubbliche e quindi mette in pericolo il nostro futuro. Il danno d’immagine non meraviglia. Dopo tutto, questa crisi economica è stata causata dalle banche, sia in America sia in Europa, che hanno ampliato i propri prestiti in modo troppo temerario, incoraggiando le istituzioni finanziarie ad acquistare titoli complessi e rischiosi perché sembravano offrire alti rendimenti.
La crisi bancaria ha reso chiaro che i servizi finanziari hanno bisogno di una regolamentazione più severa e che ogni economia fortemente basata sulla crescita e sui profitti dei servizi finanziari mette una seria ipoteca sulla sua futura stabilità e prosperità. Le vittime più evidenti di questo gioco d’azzardo sono state l’Islanda e l’Irlanda.
Ma anche la Gran Bretagna – dove i servizi finanziari nel 2006, al loro meglio, garantivano l’8-10% del Pil – ha sofferto per aver puntato troppo sulla finanza. Così, naturalmente, ora c’è una reazione d’insofferenza contro la finanza. Ma perché questo dovrebbe colpire anche gli altri settori dell’industria? Durante la crisi ci sono state forze stabilizzanti, settori nei quali l’occupazione, la produzione e il reddito erano molto più solidi e affidabili rispetto alle due principali vittime della crisi, vale a dire finanza e produzione. La finanza ha causato il crollo (anche se direi che la cattiva politica macroeconomica, combinata con la debolezza delle regole, hanno reso possibile questo comportamento piratesco della finanza), ma il collasso peggiore della domanda e dei posti di lavoro è avvenuto nel settore manifatturiero.
Nonostante questo calo nella produzione durante la crisi ora sembra molto diffusa la convinzione che la produzione sia in qualche modo più affidabile, più «reale» del mondo immateriale dei servizi, e che la definizione di una economia «forte» sia un’economia per lo più manifatturiera. Questo punto di vista potrebbe avere delle conseguenze: il pericolo è che la crisi in un solo tipo di industria dei servizi, quella bancaria, potrebbe rendere ciechi i politici, gli intellettuali e il pubblico di fronte all’importanza e al valore delle altre industrie di servizi, portandoli ad adottare misure particolari dirette esclusivamente alla produzione Se fosse così questo sarebbe un grosso errore e sarebbe strano in termini puramente aritmetici.
In Gran Bretagna, per esempio, il 75% dell’economia complessiva del Pil (più propriamente, in base alla definizione dell’Ocse, il 75% del totale del «valore aggiunto», che è il Pil al netto di alcune imposte) è fornito dai servizi. Ciò significa che almeno il 65% proviene da servizi diversi da quello bancario. Se ci si concentra sulla produzione – come ha fatto di recente il governo britannico quando ha deciso di commissionare due portaerei per la Royal Navy che non sono realmente necessarie e per le quali non sarà disponibile per diversi anni alcun aereo adatto – ci si focalizza su un aspetto minoritario trascurando la maggior parte dell’economia.
Sì, certo, sono dati inglesi: ma tutti sanno che il «Made in Britain» è morto anni fa. Allora, qual è la cifra per l’Italia, un’economia che si è sempre ritenuta concentrata sulla produzione? La risposta può sorprendere. E’ il 71%. La maggior parte dell’economia italiana è costituita da servizi, forniti sia da imprese private che dal settore pubblico. Solo il 4% separa ipoteticamente la Gran Bretagna dominata dalla finanza dal paradiso italiano dell’industria manifatturiera. Di conseguenza, solo il 27% del valore aggiunto in Italia deriva dall’industria (che comprende attività estrattive, edilizia, elettricità, gas e acqua così come le fabbriche convenzionali), contro il 23,6% della Gran Bretagna (tutti questi dati sono del 2008, tratti dal Libro dei Fatti 2010 dell’Ocse, una pubblicazione progettata e ideata da Enrico Giovannini, attualmente presidente dell’Istat a Roma, e in precedenza responsabile della statistica presso l’Ocse, a Parigi).
Su che cosa, allora, dovrebbe concentrarsi l’Italia, per la prosperità delle generazioni attuali e future? Il problema di fondo è familiare: come ha detto spesso il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi nei suoi discorsi, l’Italia ha registrato una crescita più lenta della produttività rispetto ad altri Paesi della zona euro, una crescita più lenta del PIL globale, e minori redditi delle famiglie. E anche il ritmo della ripresa del Paese dalla recessione del 2008-09 è stato lento, rispetto agli standard europei. In futuro, tutti concordano, occorreranno una crescita più rapida della produttività, la creazione di nuovi posti di lavoro ben pagati, un aumento del reddito delle famiglie e più innovazione.
Questo sottosviluppo della produttività è comune al settore manifatturiero e a quello dei servizi, tanto pubblici che privati. La scarsa competitività nel settore dei servizi si riflette anche sulla mancanza di grandi società di servizi che potrebbero dare lavoro a un sacco di gente ed essere competitive a livello internazionale. Dove sono in Italia i grandi studi legali paragonabili a quelli di Gran Bretagna e Germania? Dove sono le grandi agenzie pubblicitarie e di marketing come la francese Omnicom o la WPP in Gran Bretagna? Dove sono gli architetti italiani di fama mondiale, in competizione per i contratti in Cina o in India con le imprese svizzere, inglesi e americane? Dove sono, parlando di altri servizi finanziari, le grandi compagnie di assicurazione italiane? Dove sono i giganti del software italiano paragonabili alla Sap in Germania e, naturalmente, a Oracle? Dove sono le imprese di consulenza italiana? Dove sono le grandi catene alberghiere italiane di lusso? Il punto è che questa è una grande occasione mancata in un Paese dove creatività, design e ingegneria – che sono tutti servizi – hanno avuto un ruolo tanto importante nella sua storia. Inoltre, la natura non competitiva, non creativa e costosa dei servizi grava come una tassa sull’autentico «Made in Italy» di cui tanti politici e commentatori sono così appassionati. Gli economisti della Banca d’Italia hanno cercato di spiegare perché l’industria manifatturiera tedesca ha reagito molto meglio negli ultimi 10 anni rispetto a quella italiana, di fronte alla nuova concorrenza di Cina, India ed Europa dell’Est. Hanno constatato che un settore dei servizi più competitivo e innovativo è un ottimo motivo: è stato questo ad aiutare la crescita delle esportazioni della Germania e la sua mancanza a ostacolare l’Italia.
Fatemi spiegare meglio. Io sono un ammiratore della produzione italiana, specialmente dei settori ad alta qualità artigianale per i quali il Paese è giustamente famoso. Nel mio nuovo libro, «Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi» (Rizzoli), annovero produttori specializzati, di medie dimensioni, come Brunello Cucinelli, il Gruppo Loccioni e Technogym tra i miei principali esempi de «La Buona Italia». La mia preoccupazione, però, riguarda gli indirizzi futuri della politica governativa e l’impegno delle federazioni dei datori di lavoro.
Tale politica è influenzata da ricercatori come la Fondazione Edison, che celebrano il Made in Italy. Recentemente in una recensione di «Forza, Italia» su «Economy», Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison, ha scritto che l’Italia dovrebbe essere felice di essere la seconda più grande economia «reale» in Europa, dopo la Germania. Ma questo si basa su una visione primitiva e superata di ciò che è «reale» in un’economia: davvero il 71% dell’economia italiana è «irreale»? La sua professione (economista), o quella del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti (avvocato), non sono «reali», non hanno un valore? Si ignora anche la prestazione mediocre delle esportazioni del «Made in Italy» negli ultimi dieci anni: nel decennio 1998-2008, l’Italia si è classificata 25ª tra i 30 Paesi membri dell’Ocse per la crescita annuale delle esportazioni e delle merci, e 28ª nella crescita annuale delle sue esportazioni di servizi. Reale o meno, è stata una prestazione scadente.
Quindi è ora di «Get Real», come dicono gli americani, di fare i conti con la realtà. Promuovere sia i servizi sia la produzione e liberalizzare entrambi; costruire infrastrutture che serviranno a tutti e due (come la banda larga super-veloce) piuttosto che a uno solo (ponti e autostrade). E soprattutto, da un punto di vista politico: elogiare entrambi.
Traduzione di Carla Reschia
La Stampa 07.11.10