Abbiamo iniziato a dire «no» a un progetto che ci vuole infinitamente ricattabili, sempre più poveri in una guerra alla quale la società italiana sembra essere stata destinata da una gestione a dir poco discutibile della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Mi sono imbattuto in Shantaram, un romanzo di Gregory Roberts, in cui si parla della cosa migliore al mondo. Una sostiene sia il potere, un altro il denaro, il terzo vota per la libertà. Alla domanda «Ma la libertà di far che?», avanza un’ipotesi: «Non so. Forse soltanto la libertà di dire no. Se riesci a ottenerla, non hai più bisogno di nulla».
Tra gli oltre 9 mila ricercatori che si sono dichiarati indisponibili a ricoprire gli incarichi della didattica non obbligatoria in 50 atenei italiani saranno in molti a riconoscersi in questa libertà. Otto mesi fa, quando la nostra protesta è iniziata nelle facoltà di scienze di Torino, Napoli e Cagliari, credevamo che il senso della nostra indisponibilità fosse legato alla pur necessaria difesa di un ruolo che ha svolto fino a oggi il 40 per cento della didattica nelle nostre facoltà. La riforma Gelmini dell’università realizza infatti la cancellazione della terza fascia della docenza universitaria, nega la possibilità di carriera a oltre 27 mila ricercatori, rende peraltro difficoltosa la ricostruzione del loro percorso contributivo. Così facendo, mette ogni aspetto della vita accademica e democratica delle università nelle mani di alcune migliaia di professori ordinari e precarizza la vita di chi fa ricerca a tempo pieno – come noi della rete 29 aprile – e quella dei 100 mila ricercatori precari costretti a una definitiva diaspora, rendendoci tutti sostituibili. Con il tempo abbiamo compreso che esiste anche un altro senso che ha contagiato come un virus molti e sconosciuti colleghi dei settori umanistici, scientifici e tecnologici. Insieme a loro abbiamo iniziato a dire «no» a un progetto che ci vuole infinitamente ricattabili, sempre più poveri in una guerra alla quale la società italiana sembra essere stata destinata da una gestione a dir poco discutibile della crisi finanziaria iniziata nel 2008.
Sono convinto che la nostra indisponibilità continuerà per l’intero anno accademico, e comunque fino a quando non esisterà un altro progetto di riforma degna dell’università pubblica e democratica che questo paese avrebbe potuto creare e, ne sono convinto, riuscirà un giorno a conquistare. Essere indisponibili, oggi in Italia, significa avere la libertà di rifiutare un lavoro dequalificato e precario, la norma in un sistema di produzione capitalistico come ha scritto Max Weber. Indisponibile significa opporsi al deterioramento della condizione di vita dei più giovani ai quali è stato negato l’accesso al welfare e ai servizi pubblici di cui noi quarantenni abbiamo goduto per ultimi, anche se non come avremmo dovuto. Come ricercatori abbiamo trovato uno strumento per opporci allo smantellamento (le cosiddette «riforme») del sistema pubblico di produzione e distribuzione della conoscenza, dalla ricerca alla cultura, dalla scuola all’università. Ci siamo dichiarati indisponibili a condividere silenziosamente il progetto dei ministri Gelmini e Tremonti che non intendono recuperare risorse con un taglio finanziario, ma infliggono un’offesa alla qualità, all’autonomia e alla finalità di miglioramento sociale al quale dovrebbero dedicarsi l’università e la scuola.
In pochi mesi siamo stati davvero in tanti a dire «no»: i difensori del territorio in Valle di Susa, gli operai che nelle urne e nelle piazze hanno detto «no» all’accordo di Pomigliano, i cittadini che difendono l’acqua pubblica. Chi ha un grande potere (Peter Parker docet!) ha anche una grande responsabilità: i talenti vanno fatti fruttare, e non seppelliti in giardino. Per far sì che questo grande potere non resti inespresso occorre fare un sforzo e allargare la prospettiva al di là del proprio particolare. E, mai come oggi, il terreno in cui seminare è pronto.
*Fisico, Università di Torino, Rete 29 aprile
Il Manifesto 05.11.10