Che Berlusconi non si dimetterà spontaneamente mi pare ormai assodato. Non c’è e non ci sarà mai alcun giudizio sulla sua indegnità morale e la sua incapacità politica a metterlo in crisi. Chi si è illuso del contrario evidentemente dimenticava le ragioni per cui è entrato in politica, e cercherà di restarvi sino all’ultimo minuto possibile.
Solo Fini può aprire la crisi del governo. Lo farà domenica prossima? È assai improbabile. Ritirerà la delegazione dei suoi uomini dal governo? È assai improbabile.
E se lo facesse, a quel punto Berlusconi – come ha minacciato nei giorni scorsi – sarà lui ad aprire la crisi? È assai improbabile. La strategia di Fini e quella di Berlusconi in questo momento sembrano sovrapporsi, ognuno dei due infatti punta a logorare l’altro.
Bene ha fatto Bersani a provarle tutte per unire le opposizioni e non mettere in difficoltà Fini e, all’interno del Pd, bene ha fatto Veltroni a togliere ogni alibi ad alleati e alleandi sempre pronti a scommettere sulle nostre divisioni. È giunto però il momento di chiedersi se non si debba procedere a un cambio di strategia.
Il Pd infatti è obbligato a giocare la scommessa e a farsi percepire come alternativa possibile a questa destra. Se questo governo è guidato da un personaggio che continua a ferire il prestigio del paese e, soprattutto, che condanna il paese a uno stallo non più sopportabile, si debbono assumere le iniziative conseguenti, quelle previste in tutti gli ordinamenti democratici. Occorre cioè presentare una mozione di sfiducia.
Una alla settimana, se necessario. Si costringe in tal modo Fini a votare contro e a fare quadrato con il governo? Forse. Una volta, due volte, tre volte.
Forse. Ognuno in democrazia mette la propria faccia ed assume le proprie responsabilità. Il Pd non può subire il logoramento di una situazione che fatalmente lo coinvolge.
Proprio ieri mi è capitato di arrabbiarmi con un mio amico brasiliano che mi ha confidato di aver votato per il candidato Serra e non per Dilma, la candidata sostenuta da Lula diventata presidente. Gli ho detto: ma quello è un candidato di destra! E lui: voi europei siete troppo superficiali e ideologici, Serra è un riformista, per di più competente e con senso dello stato. Da noi in questa fase la destra non c’è. Le elezioni presidenziali si sono giocate fra tre candidati riformisti, ciò che li distingueva era la credibilità personale. Questo ragionamento, associato alle considerazioni che ci vengono dalle elezioni di medio termine negli Stati Uniti e dalla lettura di altri dati della nuova geografia politica mondiale, ci porta alla conclusione che la globalizzazione sta scombussolando non solo gli equilibri economici e finanziari, ma anche quelli politici: nei paesi in espansione (Brasile, India, ecc.) la fiducia dei cittadini si orienta prevalentemente verso le formazioni di sinistra, i partiti riformisti, mentre in quelli dominati dalla stagnazione e dall’incertezza accade il contrario. Anche perciò, per tornare in Italia, la sfida del Pd è difficilissima.
In questa fase il quadro potrà cambiare solo se riusciremo a provocare la spaccatura della destra e – contemporaneamente – a recuperare quantomeno il nostro ex elettorato, cioè a raccogliere tutto il nostro elettorato potenziale.
Per raggiungere il primo obiettivo sinora abbiamo accettato di subordinarci alla strategia di altri, con risultati magri. Non dobbiamo per questo ora aggredire Fini, il nostro bersaglio continua ad essere questo governo inefficace e dannoso, ma dobbiamo metterlo garbatamente di fronte alle proprie responsabilità, se necessario una, due, tre e più volte.
Per il secondo obiettivo è necessario mostrare la potenzialità di una nostra iniziativa, non improvvisata certo, ma tenace e sistematica. Una iniziativa che non nasconda e non si nasconda l’urgenza, la profondità, la estrema difficoltà dei problemi che si proporranno al governo nei prossimi mesi. Problemi che vengono da più lontano alcuni, e altri chiaramente frutto della irresponsabilità di questo esecutivo. Basta fermarsi sulla cronaca degli ultimi giorni: i rifiuti, il disastro geologico destinato a ripetersi in ogni angolo del paese, la situazione esplosiva della finanza locale con le conseguenze che dobbiamo attenderci sul piano dei servizi, la ingovernabilità del sistema scolastico e di quello universitario, la totale assenza di una politica industriale e di una strategia infrastrutturale, e si potrebbe proseguire. In una condizione di casse vuote, nessuna maggioranza ce la può fare da sola, soprattutto se divisa al suo interno.
Occorre, perciò, dire con chiarezza che dopo Berlusconi si dovrà fare spazio a un governo politico, potenzialmente di unità nazionale o quanto meno di larga unità, la sola condizione tra l’altro per confidare nella possibilità che a guidarlo sia una personalità di grande prestigio, competenza e affidabilità internazionale, modello Ciampi appunto.
Vorrei che non dimenticassimo mai i dati dell’ultimo rapporto annuale “Gli italiani e lo Stato” (del dicembre 2009, oggi sono ulteriormente peggiorati) da cui risulta che mentre il presidente della repubblica continua a godere il 70,3 per cento di fiducia della popolazione adulta, la fiducia del parlamento è crollata al 18,3 per cento e quella dei partiti politici all’8,6 per cento.
Con questo volume di diffidenza, anzi di sfiducia, i margini di manovra non sono amplissimi, se non sapremo realizzare un riavvicinamento dei cittadini.
Proporre un governo di larga unità nazionale per il dopo Berlusconi non è un atto di debolezza, ma di responsabilità.
E solo la responsabilità della politica potrà favorire una nuova stagione di responsabilità della società.
da Europa Quotidiano 04.11.10