La fine del ventennio berlusconiano nella storia d’Italia è confermata, con una insistenza ormai quotidiana, dalla testimonianza più autorevole e diretta, quella di Silvio Berlusconi. Da quando è scoppiato lo «scandalo Ruby», le giustificazioni con le quali il presidente del Consiglio tenta di spiegare i suoi comportamenti dimostrano la fondamentale crisi di quello che è stato uno straordinario comunicatore e un grande interprete degli umori prevalenti nel Paese. Colui che ne ha rappresentato, con la massima spregiudicatezza, ma anche con la massima efficacia, sia la voglia di modernità, sia la fiducia nel futuro.
Quando, in un’Italia angustiata dalle difficoltà economiche, dalla disoccupazione giovanile, da una paralisi decisionale e legislativa impressionante, il premier rivendica uno «stile di vita» che cozza così clamorosamente con la sensibilità generale, vuol dire che si è rotto il legame più forte che lo ha identificato con i sentimenti della grande maggioranza degli italiani. Quando definisce un «atto di solidarietà», quello manifestato nei riguardi di una escort minorenne, clandestina e accusata di furto, non comprende di ferire milioni di donne che nel nostro Paese faticano a trovare un lavoro onesto.
Quando ripete una vecchia e squallida battuta sugli omosessuali non si accorge di un mondo che è cambiato rispetto ai suoi giovanili anni della metà del secolo scorso.
Anche la seconda e, forse, ancor più importante ragione del forte legame con la maggioranza dei moderati italiani, la convinzione della miracolistica capacità di Berlusconi di risolvere problemi che si trascinano nel nostro Paese da decenni, appare drammaticamente delusa, proprio in questi giorni. Basti pensare ai cumuli di immondizie sulle vie di Napoli che smentiscono clamorosamente le sue assicurazioni sui tempi rapidissimi di una soluzione del «caso rifiuti». Con l’aggravante di una poco onorevole ritirata rispetto alle proteste locali, davanti alle quali si era proclamata una fermezza governativa ben presto abbandonata.
E’ ancora di ieri, poi, la sconcertante ammissione dell’amministratore delegato dell’Alitalia, Rocco Sabelli, relativa all’inevitabilità di una fusione con Air France. Alla faccia dell’annunciato altro «miracolo» berlusconiano, la salvezza, peraltro a caro prezzo, dell’italianità della compagnia aerea nazionale. Così come appare indeciso e timoroso l’atteggiamento del governo nei confronti delle urgenze sulla realizzazione delle grandi opere infrastrutturali, a cominciare dalla linea dell’Alta velocità Torino-Lione.
Ecco perché, nonostante le apparenze, la crisi del berlusconismo non è provocata dalle inchieste giudiziarie sul suo conto. Né, confermando le apparenze, dall’efficacia dell’azione delle opposizioni. Ma nasce dalla fondamentale rottura tra il Cavaliere e la sensibilità di una parte importante dei moderati italiani. Proprio quella parte che vorrebbe rappresentare Fini, ma che il presidente della Camera teme di irritare se mostrasse di voler uscire dal recinto del centro-destra.
Così, una normale evoluzione del sistema politico che dovrebbe sancire il passaggio dalla cosiddetta seconda Repubblica a una fase nuova, anche se per ora indistinta, è bloccata da una serie di insopportabili tatticismi che rischiano di provocare una vera e propria crisi istituzionale. Un presidente del Consiglio come Berlusconi, com’è evidente, non si dimetterà, se non costretto da un voto di sfiducia parlamentare. Il leader di «Futuro e libertà» cerca di evitare d’apparire come il traditore del centrodestra, in odiosa combutta con la sinistra. Bersani esita a presentare una mozione che potrebbe mettere in imbarazzo il presidente della Camera. I parlamentari del Pdl, consapevoli dell’inconsistenza di un partito che esiste solo in quanto esiste Berlusconi, temono che la caduta del premier non possa lasciare superstiti fra di loro e giudicano più rischiosa la dissociazione dal premier che la resistenza, anche oltre ogni limite di dignità.
Con il mondo che guarda sbigottito, e non più sprezzantemente divertito, le cronache della nostra cosiddetta politica nazionale, bisogna porre fine a questi piccoli, ma pericolosi giochi di interdizioni reciproche, di furbizie personali, di calcoli di convenienze partitiche. L’opposizione, a cominciare dalla forza determinante, il Pd, faccia fino in fondo il suo mestiere, presentando, se davvero non ha paura di un’eventuale prova elettorale, una mozione di sfiducia. Fini, se pensa di poter interpretare i sentimenti di una parte non piccola dei moderati italiani, dimostri il coraggio della coerenza e la capacità di sfidare accuse e insinuazioni. I parlamentari del Pdl sappiano scegliere se credere più in se stessi o in Berlusconi. Quelli della Lega decidano se, sull’altare di un lento e confuso processo federativo, si può sacrificare ancora l’appoggio al presidente del Consiglio.
E’ possibile, e anche probabile, che lo sbocco di una crisi di questo governo non porti a un altro ministero, in questa legislatura. Non esistono governi tecnici. Tutti, quando hanno una maggioranza in Parlamento, sono governi politici che devono avere un programma condiviso e un sostegno coeso tra i partiti che lo promuovono. Ipotesi non facile nella composizione attuale delle Camere. Ma la paralisi decisionale davanti ai gravi e urgenti problemi dell’Italia d’oggi è un rischio più grave di nuove elezioni. Se il centrosinistra è diviso, incapace di candidare un leader credibile e tale da ispirare fiducia e magari un po’ d’entusiasmo, se il centrodestra non è in grado di pensare a un altro premier che non sia l’attuale presidente del Consiglio, non è giusto che la democrazia italiana resti bloccata in attesa di tempi più favorevoli.
La Stampa 03.11.10