Romano Prodi può non pretenderle, ma avrebbe diritto alle scuse. Vi ricordate le critiche che piovvero su di lui, allora presidente della Commissione europea, quando disse in un’intervista a Le Monde – era giusto l’ottobre di otto anni fa – che il patto di stabilità era “stupido”? Lo si volle far passare per un istigatore alla violazione del patto e la stessa Bce reagì gelidamente, ribadendo che le regole vanno comunque rispettate.
Ebbene le analisi che abbiamo letto in questi mesi, coronate, almeno per ora, dalle deliberazioni di venerdì con le quali il Consiglio europeo ha corretto profondamente il patto, rendono giustizia a Prodi, giacché riprendono la sua critica e sono caso mai ancora più dure. Non penso soltanto ai tanti articoli di singoli studiosi. Ho davanti il rapporto della Commissione affari europei del Senato francese del 19 ottobre, nel quale si parla di un patto «décrédibilisé», cioè privato di credibilità, che «non ha funzionato». Il patto non ha funzionato – scrivono i senatori francesi raccogliendo giudizi ormai diffusi – perché il suo rispetto era rimesso interamente alla buona volontà degli stati membri che hanno fatto a gara nel violarlo.
Perché – come aveva spiegato Prodi – la sola attenzione ai numeri del bilancio non basta ma occorre tener conto del ciclo economico e di altri fattori; perché, anche in ragione di ciò, le sanzioni non sono state mai applicate e perché, infine, era diventato un congegno farisaico, che concentrava l’attenzione sul limite dell’indebitamento annuo (il fatidico 3% del Pil), lasciando irresponsabilmente nell’ombra le dimensioni del debito totale.
Quali sono i cambiamenti di maggior rilievo che sono stati introdotti e quali conseguenze ne potranno derivare? Si parla molto del fondo anticrisi, oggi vigente per soli tre anni e reso permanente, anche per il forte dissenso espresso da Jean-Claude Trichet sul coinvolgimento in esso dei privati, che potrebbe rendere i mercati ancora più turbolenti. Lo si dovrà chiarire, certo si è che il fondo colma una lacuna, della quale per anni abbiamo addirittura negato l’esistenza. E c’è voluto il disastro greco per farci capire che ne abbiamo bisogno. Al di là di ciò, quattro temi mi paiono particolarmente significativi: il rafforzamento del coordinamento preventivo attraverso il “semestre europeo”; la questione delle sanzioni, per chi dovesse risultare ex post fuori norma; l’attenzione agli squilibri macroeconomici oltre che a quelli di bilancio; l’attenzione non solo all’indebitamento annuo, ma anche al debito totale e al suo rapporto con il debito privato.
Del semestre europeo parlo con personale soddisfazione, perché riprende una mia idea di diversi anni fa, quando proposi, per i paesi della zona euro, un documento di programmazione economica e finanziaria comune (un Dpef, come quello che allora avevamo in Italia) che facesse da base ai rispettivi bilanci. Era un modo di garantire a priori la convergenza e la coerenza delle nostre politiche fiscali, che poteva di molto ridurre gli scostamenti dal patto. Allora parve troppo osé, ora, con il semestre, ci andremo molto vicini e ai parlamenti nazionali dovranno essere presentati bilanci accompagnati dalle raccomandazioni del Consiglio e della Commissione e dai modi per attuarle. Per chi pensa che non possa esserci una moneta comune senza politiche fiscali effettivamente comuni, è un bel passo avanti.
È un bel passo avanti che, riducendo il rischio di divergenze, può rendere meno cruciale il tema delle sanzioni. E qui io ci penserei due volte prima di far cadere la proposta franco-tedesca d’introdurre anche sanzioni non finanziarie. La proposta non ha avuto molta fortuna nell’ultimo Consiglio – il presidente della Commissione l’ha definita inaccettabile – e su di essa si tornerà forse a dicembre. Le sanzioni finanziarie a carico di chi ha un disavanzo eccessivo, automatiche o non automatiche che siano, finiscono sempre per far piovere sul bagnato e questo non è certo il modo migliore di asciugare il disavanzo. Quando risulti accertato che esso è dovuto non ad incontrollabili fattori esterni, ma a responsabilità dirette delle autorità nazionali, l’effetto reputazionale della sospensione del diritto di voto nelle sedi europee può essere ben più utile ed efficace.
Fortemente innovativo è l’allargamento della sorveglianza e del coordinamento al di là dei bilanci, nella consapevolezza che gli stessi squilibri macroeconomici possono danneggiare non solo la stabilità dell’unione monetaria, ma la crescita complessiva di chi ne fa parte. Si prevede perciò che tanto gli stati con forti disavanzi correnti, quanto quelli in surplus siano tenuti ad adottare le politiche e le riforme che, nel caso di surplus, dovranno rafforzare la domanda interna. E ci saranno indicatori e raccomandazioni della Commissione a cui essi si dovranno attenere.
La Germania ha così accettato in sede di Unione ciò che, d’accordo con gli altri europei, aveva respinto in sede di G20, quando il Tesoro americano aveva proposto dei limiti non valicabili per i paesi in surplus. Una contraddizione? Leggiamolo come uno scatto di europeismo, perché al G20 si è detto che uno squilibrio interno all’Europa è all’interno della stessa Europa che verrà risolto. Speriamo che sia vero. Se lo sarà, vorrà dire che saremo davvero più europei. E vorrà anche dire che s’intendono porre in comune in Europa non solo il rigore fiscale, ma anche le politiche per la crescita interna. Mesi fa sembrava che la Germania da questo orecchio non ci sentisse. Se non è più così, è davvero un’opportunità da non perdere.
E arriviamo all’ultimo punto, l’attenzione che finalmente è caduta, oltre che sull’indebitamento annuo, sulle dimensioni del debito totale. Non ci saremmo arrivati senza l’impennata dei debiti pubblici seguita alla crisi finanziaria. Certo si è che a questo punto non si poteva più far finta di non accorgersi che rispettare l’indebitamento al 3% lasciando immutato negli anni un debito totale esorbitante non rispetta le regole del gioco. Ed ecco la richiesta di una discesa costante, accompagnata dalla previsione di sanzioni per chi non lo fa.
Giustamente l’Italia ha chiesto che le sanzioni non siano automatiche e che si valutino insieme l’entità del debito pubblico e quella del debito (e quindi del risparmio) privato. Ma qui sorge per noi una domanda finale: il basso debito privato e l’alto risparmio di cui godiamo ci devono servire per non essere puniti se il debito pubblico lo lasciamo alto, oppure per tagliarne una bella fetta, sacrificando un po’ di quello che abbiamo? Prevale la prima risposta, c’è addirittura chi la ritiene socialmente più giusta. Ma forse la troverebbero meno giusta le generazioni future, a cui lasceremmo intero un debito che noi abbiamo fatto e che a noi toccherebbe pagare. Vogliamo discuterne?
Il Sole 24 Ore 31.10.10