Il governo parla di orari e discipline, ma Tv e rete ci dicono che c’è un altro modo di imparare. Solo una parte dell’apprendimento avviene a scuola. È stato sempre così. Ma la scuola ha avuto, da duecento anni, il monopolio dei codici e dei metodi di apprendimento. Invece oggi tutte le discipline sono accessibili in mille forme e in ogni luogo. Con la possibilità di essere rapidamente manipolate, variate, confuse, confrontate, espanse. Lo stesso funzionamento del cervello umano viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici e dispositivi che stimolano i diversi sensi insieme, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, tra rapidità e pazienza, ecc. Di fronte a questo scenario, soprattutto nelle scuole superiori, l’idea di scuola fondata sul prevalere del metodo trasmissivo regge ancor meno che in passato. Eppure il governo propone un’organizzazione oraria e disciplinare che può contenere quasi solo la trasmissione frontale: cinque ore a scuola con il prof che ti dice come è fatta la sua parte di mondo, decide cosa è per te importante e come lo si apprende e valuta. Con l’aggiunta, semmai, delle tre «i» e di qualche lavagna interattiva. Ma davvero si può credere che sia questa la scuola capace di misurarsi con l’intreccio complesso tra nuovi media e salvaguardia del rigore del metodo, tra sapere di base e graduale acquisizione delle procedure di ricerca, tra sviluppo del protagonismo personale e rischio di subalternità ai gadgets? L’intero dibattito delle neuroscienze sul come si apprende, il rapporto tra teoria e operatività, tra modelli e laboratorio, tra apprendimento individuale e co-costruzione di competenze insieme agli altri, tra conoscenze fondative delle discipline e conoscenze atte a guardare ai grandi problemi del mondo entro campi di sapere pluri-disciplinari, complessi, con ampie zone di cerniera tra saperi, tra certezze da conquistare e dubbi indispensabili per farlo: è tutto questo che viene lasciato fuori dall’idea di scuola che ci viene dal governo. Ma alle poche ore rigidamente trasmissive dell’impianto del governo non possiamo rispondere chiedendo solo più ore o la mera difesa dell’orario- cattedra. C’è un altro modo di apprendere che ha invaso il campo. E con il quale gli insegnanti si misurano già da tempo. È dagli anni settanta che la scuola fa i conti con quanto c’è «oltre il libro e la lavagna». È stata la tv che ci ha introdotti all’insegnamento della «fruizione critica» dei media, a leggere i molti livelli dei messaggi e poi a produrre immagini in proprio, misurandoci con i nessi tra uso dei mezzi, creatività, contenuti costruttori di effettivo sapere. La tv ci ha costretti alla giornaliera fatica di contrastarne i crescenti guasti antropologici in termini di contenuti e modelli di relazione ma anche a modificare molte forme di insegnamento. La rete ci sta spingendo a scoprire che è possibile una convivenza e commistione tra mezzi vecchi e nuovi, che si può ricostituire uno «spazio salvo» per i buoni rituali e per la sacralità dei codici e dei mezzi tradizionali, purché li si intrecci con i nuovi. Leggere i giornali e i libri per produrre altri giornali o libri o radio o video. Imparare a recitare bene poesie e opere di teatro per renderle poi spettacolo riproducibile, musicarle, stravolgerle; o creare opere multimediali in proprio affrontando le sfide del testo, delle immagini, della musica, del montaggio, del ritmo. Mettere in rete la fatica rigorosa e creativa di scritture ben curate e di produzioni artistiche, esperienze scientifiche, manifatture che contengono tecnologie. Così, la condizione della docenza sta facendo i conti con una rivoluzione nell’idea stessa di trasmettere conoscenze e riconoscere competenze. La realtà di come si impara oggi vola ben oltre le pareti della scuola, annulla il tempo diviso tra «a scuola e a casa», smentisce ogni idea lineare di apprendimento. È una cosa enorme. E noi ci sentiamo spaesati. E dobbiamo ammettere che siamo per lo meno restii a considerare possibile che Francesca o Carlo o Maraya stiano facendo i compiti di matematica mentre parlano al cellulare con un auricolare, ascoltando musica con l’altro, mentre inviano sms a ripetizione, guardano con la coda dell’occhio un canale tv magari in un’altra lingua, con il computer che è luogo di chat,maal contempo di ricerca di formule matematiche atte a risolvere i quesiti del compito. E poco ci domandiamo: cos’altro, intanto, stanno imparando? Poi, però, comprendiamo mano mano che i nostri ragazzi – pur fragili su molti piani – sono immersi in processi di apprendimento ricchi, che procedono per salti, approssimazioni, consolidamenti, ritorni. Non è come abbiamo imparato noi. E, tuttavia, registriamo che c’è un forte bisogno di strumenti selettivi, interpretativi e regolativi che solo noi possiamo indicare e far valere, ma a condizione di stare a contatto col modo con cui i ragazzi stanno imparando. Così, alle molte nostre resistenze si vanno affiancando le disponibilità a provare forme nuove del nostro mestiere. Da trasmettitori di saperi ci stiamo facendo metodologi della loro selezione. Da detentori di un corpus di nozioni stabilite e rigidamente divise in discipline stiamo trasformandoci in esploratori e co-produttori di ricerca, sorveglianti di procedure, esperti dei rapporti mutanti tra forme e contenuti, tra acquisizioni e comunicazioni, tra aree diverse di sapere che hanno rimandi e campi comuni. Per farlo scopriamo che stiamo agendo in almeno tre direzioni tra loro complementari. Prima: ricostruire in altro modo i riferimenti fondativi delle discipline e far riscoprire i «classici» in ogni area di conoscenza. E anche i mezzi classici: il buon libro, il vocabolario, gli appunti, l’atlante, il calibro, la china, l’acquarello. Seconda: condividere una navigazione curiosa attraverso le scritture on line, i giochi di ruolo, i programmi di simulazione, scovando il sapere economico, geografico, storico, giuridico, scientifico e i passaggi logici che contengono o esplorare insieme gli immensi giacimenti informatici di letteratura mondiale o matematica, scienze, arte, musica. Terza: produrre opere in ogni campo, promuovere prove d’opera, creare produzioni e scambi globali. È tutto questo che sta accadendo. Ed è così che molti docenti rompono il nesso rigido e il controllo deterministico tra l’informazione erogata (la lezione) e l’informazione richiesta (il test, l’interrogazione) e entrano nei campi proficui delle procedure di ricerca: l’elaborazione di progetti e produzioni, la decodificazione e l’interpretazione, l’analisi e l’attribuzione di significati, l’espressione di giudizi personali entro procedure sorvegliate e legittime, la validazione di ipotesi e percorsi. È un universo dove anche noi stiamo imparando mentre insegniamo. E che ha bisogno urgente di una nuova scuola. Fatta di organizzazione fluida, ariosa, inedita, basata su libertà e diretta responsabilità dei gruppi docenti in azione.
L’Unità 27.10.10